BAR CENTRALE E PIAZZA PONTANO
La piazza è il centro della vita di un paese. Il cuore pulsante di un borgo, un punto di ritrovo spontaneo, di proprietà di tutti. Ma piazza Pontano è anche di più.
Luogo di incontro nelle sere d’estate, crocevia di lunghe chiacchierate, tornei, dibattiti politici e tanto altro, per decenni le vicende di Conflenti hanno calcato lo spazio comune più centrale del paese.
Eppure fino a metà degli anni Ottanta la piazza, poi intitolata a Tommaso Pontano, conflentese e direttore del reparto di malattie infettive dello Spallanzani di Roma oltre che medico di Mussolini, non esisteva proprio, esisteva solo la strada delimitata da un muretto e sotto c’era un canale per la raccolta delle acque.
Poi il 1986 l’amministrazione di allora riuscì a ottenere un finanziamento e consolidò tutta l’area che era molto instabile e aveva compromesso sia delle abitazioni private che un mercato coperto mai aperto proprio perché pieno di crepe.
Approfittando di questo finanziamento si costruì anche la piazza che comunque ha avuto diversi cambiamenti nel corso degli anni. Verso la fine degli anni Ottanta, si decise per lo sgombero dell’unico immobile rimasto e si realizzò un parcheggio e una strada di collegamento con la strada sottostante. Ma soprattutto si realizzò una piazza più estesa con al centro una fontana zampillante.
Da quel momento, la piazza di fronte al Bar è diventata “a piazzetta” spazio di aggregazione, motore pulsante di eventi, serate e incontri durante tutto l’anno conflentese.
Il bar Centrale, oggi di proprietà dei fratelli Marco e Cristian Villella, affonda le proprie origini nella metà del secolo scorso, attorno agli anni Quaranta.
All’epoca, come abbiamo detto non esisteva la piazza di fronte al bar, ma le case di Nicolino ‘e Doga’ e di Michele Mastroianni, poi demolite.
Il fondatore di questo storico bar fu Remo Rubino, da tutti conosciuto come ‘Rinuccio’, persona amabile e sempre disponibile che creò uno spazio per le chiacchierate, gli incontri, le partite a carte e le serate che il Bar Centrale ospitava in quegli anni.
Era dunque il 1937 quando Rinuccio, all’epoca quasi trentenne, decise di mettersi al servizio della comunità conflentese aprendo questa che sarebbe diventata una intramontabile realtà.
In poco tempo infatti sottrasse clienti all’altro bar storico, quello di Coltellaro.
Rinuccio più giovane e più attento ai tempi seppe rinnovare e dare un’impronta moderna al suo locale e attirare lentamente anche i più giovani.
Come non ricordare infatti la prima macchina elettrica per il caffè espresso oppure, in piena estate, il primo banco frigo e i gelati artigianali.
Chi voleva assaggiarli, ai tempi, non aveva altra scelta che recarsi ‘aru bar de Rinucciu’ e sedersi a un tavolino con lo sguardo rivolto alla Chiesetta della Querciuola.
Nel paese che allora contava oltre cinquemila abitanti, il bar diventò una vera e propria istituzione, un punto di riferimento.
Se infatti il Bar Centrale era chiuso, tutto il paese si fermava, mentre bastava guardare le luci provenire dall’interno del bar per rimettere buonumore a tutti. Lì Rinuccio era sempre pronto ad ascoltarti e a strapparti un sorriso, anche grazie al primogenito Franco che, a partire dal 1949, faceva coppia fissa con lui dietro il bancone. Infinite poi erano le sfide a carte: tanti e agguerriti erano i giocatori che frequentavano ogni giorno il bar, pronti a strappare una vittoria di prestigio.
Tra questi si ricorda Vittorio Paola detto ‘u Commessu’, padre dell’attuale Sindaco del paese Serafino, abile nel fare il celebre 48. Insieme a lui, Francesco Roberti, detto “Cicciu e Curteddra”, e Peronagi, il maestro Politano, il maestro Egidio per arrivare ai più recenti Ennio Butera e “Francu e Michele”.
Rinuccio e Franco gestirono il Bar Centrale sino al 1966, anno in cui lo stesso venne ceduto a Pasqualino Mastroianni.
Da allora si sono avvicendate molte gestioni, ma il bar ha continuato a essere il punto di riferimento di sempre
Oggi Bar Centrale e “piazzetta” sono ormai un tutt’uno indissolubile, impossibile pensare al bar e non alla piazza o viceversa.
Col tempo si è proceduto a nuovi ammodernamenti, sia del bar che della piazza, ma la magia è rimasta la stessa.
Il ‘luogo’ ha conservato il fascino di un tempo, continuando a rimanere il luogo di ritrovo di tutti, come nei tempi passati, quando per rimanere ‘connessi’ dovevi solo incontrarti per strada.
I LATTARI
Lo sapevi che, una volta, a Conflenti c’erano i lattari? E sai chi erano? E cosa facevano? Te lo raccontiamo noi!
Un mestiere antico
I lattari, come si può evincere dal nome, erano coloro che vendevano il latte. Generalmente erano anche gli allevatori di bovini od ovini allevati nei verdi prati conflentesi. Dal loro bestiame producevano, dunque, del latte fresco e biologico. Ne producevano a grandi quantità: per il fabbisogno della famiglia e per venderlo ai paesani. Ed erano parecchie le famiglie dedite a quest’attività. C’erano i Villella di Tiarmuni che svolgevano una vendita di latte a domicilio. I loro clienti lasciavano delle bottiglie di vetro, con sopra scritto il cognome della famiglia, davanti alla porta. I fratelli Villella passavano la mattina presto, prima di andare a scuola, a ritirare le bottiglie vuote e rimpiazzarle con quelle piene. Segnavano su un’agenda le quantità vendute e una volta al mese passavano a ritirare il guadagno.
C’era, poi, Ernesto Maruca che accudiva il bestiame di proprietà di Peppino Folino. Produceva dell’ottimo latte, da mucche svizzere, che consegnava giornalmente alla signora Folino, mamma di Peppino, la quale provvedeva alla vendita. Chi voleva acquistarlo, in pratica, doveva recarsi a casa della famiglia Folino con le proprie bottiglie e riempirle con la quantità desiderata.
La famiglia dei lattari
Un altro signore che a tale mestiere deve il suo epiteto era, per l’appunto, Ntoni u lattaru. Ha esteso questo soprannome a tutta la famiglia, la quale ancora oggi è conosciuta con il soprannome “i lattari”. A Stranges, frazione di San Mazzeo, custodiva e allevava il bestiame appartenente a Peppino Isabella. Da lì, in alcuni giorni fissi e a orario stabilito scendeva al paese a vendere il latte. I conflentesi, dunque, si recavano con le proprie bottiglie per riempirle di buon latte fresco. Ntoni, poi, negli anni settanta ebbe l’intuizione di aprirsi un vero e proprio negozio. Adibì a latteria un magazzino sito tra piazza Piro e l’attuale piazza Pontano. Ogni giorno portava latte fresco in grandi recipienti e anche in questo caso i clienti dovevano portare con sé le proprie bottiglie e riempirle alla putiga. Il latte, all’epoca, costava 60 lire a litro.
Un mestiere antico quello dei lattari, un mestiere che oggi, purtroppo, non esiste più. Sebbene continuano, soprattutto nelle nostre frazioni, a esserci allevatori di greggi che producono piccole quantità di latte spesso trasformate sapientemente in squisiti formaggi!
IL PRETE ESORCISTA
Don Stefano Stranges fu per moltissimi anni parroco del paese,nonché Vicario foraneo della Diocesi. La moralità di questo ministro di Dio era ineccepibile,la sua rettitudine inimitabile e la sua fede nel sacerdozio incrollabile.
Per queste sue alte qualità morali fu anche un “eroico” Esorcista, cioè uno dei pochissimi sacerdoti cui la chiesa,in casi eccezionali, concede questa particolare licenza e il duro compito di purificare le anime dal”Maligno”, ingaggiando con lui lotte terribili.
Ci fu un periodo in cui a Conflenti portavano le persone indemoniate,le cosiddette “spiritate”,da tutta la Calabria e il Santuario era il luogo sacro in cui venivano liberate e Don Stefano svolgeva la sua missione d’esorcista.
Per noi ragazzi quando arrivavano gli “spiritati” era una festa; per Don Stefano era l’inizio di un calvario.Le bestemmie, le parolacce, gli sputi che l’indemoniato rivolgeva al sacerdote erano della peggiore volgarità. Ma non appena l’esorcista indossava la stola viola e impugnava la voce di Cristo diventava invincibile.
Fra i tanti voglio ricordare un episodio.
Era un giorno freddo, ma luminoso di gennaio. A Santa Maria si fermò la macchina di Carmine Calipari. Ne discese una ragazza,quasi ventenne, coi suoi familiari.
In paese si sparse subito la voce che era arrivata una “spirdata”.
Don Stefano ne fu informato e si avviò verso il Santuario. Nel frattempo la piazza si era riempita di persone,come sempre accadeva in queste circostanze.
La ragazza si avviò spontaneamente verso la chiesa,ma giunta sulla porta del Santuario di colpo si fermò e a nulla servivano le spinte che le davano gli uomini accorsi dalla cantina di “Peppe a Marca”: la donna dimostrava di avere una forza sovrumana.
La sua voce non era quella di una giovane ragazza, ma quella aspra e forte di un uomo delle caverne, sentirla parlare era una cosa terrificante.
Finalmente Don Stefano sopraggiunse,alla vista del sacerdote la ragazza divenne furibonda e le ingiurie e invettive contro l’esorcista aumentarono.
Fu un momento. Don Stefano si tolse il cappello, prese dalla tasca un piccolo crocefisso ed elevandolo verso l’indemoniata le ordinò con voce ferma di entrare. La ragazza vinta,ma non doma entrò, si avviò verso l’altare e si fermò verso il centro della chiesa.
Don Stefano indossò i paramenti sacri di esorcista e iniziò il rituale per liberarla dal demonio.
Per raccontare tutto ciò che accadde ci vorrebbe la penna di Dante.
Ve lo lascio immaginare, vi dico solo che dopo due ore intense di preghiere alternate a insulti e invettive contro il sacerdote, il “maligno” fu costretto ad andarsene.
Si udirono ancora una volta gli ordini impartiti da Don Stefano in nome di Dio e un frastuono enorme, simile ad un terremoto che voleva distruggere tutto e tutti, si propagò per la chiesa, era il rumore che accompagnava il rientro del demonio nell’abisso.
La ragazze perse le forze e cadde di colpo,sbattendo la fronte a terra.
Ci si aspettava di vedere un fiume di sangue invece dopo un pò , fra la sorpresa generale,la ragazza alzò la testa, aprì gli occhi e ignara di tutto chiese dove si trovasse.
Ritrovò la voce naturale di ragazza e, informata dell’accaduto ringraziò la Madonna, baciò la mano di Don Stefano e fece ritorno al suo paese.
Don Stefano invece, seppur stremato, si fermò ancora in chiesa per pregare per quella povera anima che aveva conosciuto il tormento e la sofferenza del male.
Corrado Roperti da Novecento Conflentese
LA CUCINA TRADIZIONALE CONFLENTESE
La cucina conflentese si caratterizza per la sua bontà e per la qualità e genuinità delle materie prime.
I nostri antenati, in periodi in cui gli scambi di merci erano molto limitati, sono riusciti a soddisfare i piaceri del gusto utilizzando con garbo e fantasia gli ingredienti di cui disponevano, elargiti generosamente e spesso spontaneamente dalle nostre colline.
Una cucina molto legata a quelle che erano le produzioni più importanti e caratterizzanti l’economia locale, come il miele, il vino, le castagne e un’agricoltura intensiva ed essenzialmente di autosussistenza, da cui arrivavano molti ortaggi e legumi.
È ovvio che si tratta di una cucina fondamentalmente povera, eppure, allo stesso tempo, sorprendentemente ricca in alcune sue espressioni, come quella dei dolci tipici, in cui ha raggiunto livelli di eccellenza.
“Cannarutie e cose duce’
Nei tempi passati in occasione di zitaggi o altre liete ricorrenze e per le feste più sentite si ricorreva all’aiuto di abili maestre dolciere che preparavano autentiche prelibatezze: bocconotti, cuddruriaddri, cuzzupe, suspiri, turdiddri, grispeddre, panette e viscotta.
La loro abilità era fuori dal comune, addirittura creavano con la duttilissima pastella anche i cestini in cui poi presentavano le loro prelibatezze.
Alcune “mastre” come Licrizia Paola, Ida Raso,Maria Ddelia o Francischina Coltellaro sono rimaste famose, ma la loro arte e maestria, per fortuna, è stata tramandata molto bene, e ancora oggi Conflenti mantiene questa grande tradizione.
La tradizione ci consegna precetti assolutamente e autenticamente cujjientari per la preparazione di queste cannarutie”.
Di alcune di queste autentiche prelibatezze vi forniamo le ricette con la speranza che restino per sempre patrimonio della nostra comunità. (altre le potete trovare navigando sul sito it.conflenti).
X Katia. Metti ricette di buccunotti grispeddre e nuciata
Per quanto riguarda invece la cucina tipica, vi segnaliamo invece alcune pietanze povere, ma estremamente gustose: vrasciole ‘e risu, vecchiareddre ‘juri ‘e cucuzza, frittata ‘e vitarve, milangiane chine e minestra maritata stufata ccu sazizze ‘e purmune e curacchi o minesstra servaggia(vedi libro carnovale.
LE PARTITE A CARTE
Un articolo scritto al passato ma attualissimo, nulla è cambiato.
Al paese di svaghi non ce ne erano tanti. Le donne passavano giornate intere sugli scalini di casa a ricamare e fare pettegolezzi, gli uomini passeggiavano, parlavano di donne e di sport e giocavano a carte.
Era questo un gioco che conferiva prestigio nel piccolo panorama paesano.
Alcuni giocatori sono diventati quasi una leggenda. Giocavan tutti, piccoli e grandi.
Come in tutti gli sport, c’era una scala di valori in cima alla quale c’erano i campioni venerati e rispettati. Con loro era difficile giocare. Si concedevano poco e non al primo venuto; un onore riservato solo a chi, nel tempo, vincendo più partite, aveva dimostrato di saperci fare. La partita col campione rappresentava la definitiva consacrazione.
Si giocava a scopa, briscola, tressette e calabrisella. I primi erano giochi che conoscevano tutti gli ultimi riguardavano solo la gente più impegnata.
Si giocava in tutte le ore del giorno, ma le ore del tramonto erano le più indicate in quanto forse il caldo toglieva concentrazione.
Quasi sempre il gioco cominciava in sordina, come di consuetudine la proposta di iniziare non veniva mai accettata al primo invito ma solo dopo un po di cerimonia.
Là inizio era sempre senza spettatori. Poi qualcuno si avvicinava con indifferenza e accostava una sedia, subito dopo un altro e poi un terzo e un quarto sino a quando intorno si formava un capannello e il gioco diventava sempre più serio.
I giocatori si sentivano osservati, giudicati ed ogni mossa doveva essere attentamente meditata. Più gente c era intorno e più lentamente procedeva il gioco. Le pause diventavano sempre più lunghe. Mai una mossa affrettata. La platea richiedeva il massimo rispetto. Il coinvolgimento diventava generale e la partita vissuta con grande partecipazione. Si gioca in otto o dieci, la mimica facciale acquista una importanza rilevante.
Il giocatore osserva, riflette e con la coda dell’occhio si guarda intorno. La sua mano tocca una carta poi un’altra, la sceglie, la solleva, si prepara a giocarla; ma poi ci ripensa e la riporta indietro e se l’amico in platea ha la faccia imbronciata, la mossa è forse avventata.
Altra pausa di riflessione. Il giocatore finge indifferenza e manifesta sicurezza, perché sa che questa è ritenuta una dote fondamentale.
Si riparte con decisione, la mano si sposta su un’altra carta, si cerca l’impercettibile cenno di assenso dell’amico e la giocata è fatta.
Intorno c’è chi biasima e chi loda. Da una mossa dipende il prestigio di un giocatore.
Le partite durano una eternità e mai finiscono con la fine del gioco.
Finito il “gioco giocato” comincia il processo, le interminabili discussioni del dopo partita, e anche qua bisogna essere molto abili e mostrarsi sempre sicuri.
E come sempre la vittoria ha tanti padri, ma la sconfitta è figlia di uno solo. E per quel solo è, una giornata triste, pieno di sfottò, un giorno nero da dimenticare.
Di A. Coltellaro
LA PRIGIONIA DI COURIER A CONFLENTI (in casa Calabria) E LA MAGNANIMITA’ DI PANEDIGRANO
Nel febbraio 1806 le truppe francesi guidate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, invasero per la seconda volta l’Italia Meridionale. Il Re di Napoli Federico IV e la corte fuggirono in Sicilia.
In poco tempo tutta la Calabria fu occupata dai francesi guidati dal generale Reynier e dappertutto si diffuse il terrore in quanto gli invasori si lasciarono andare ad azioni intimidatorie e a veri e propri saccheggi. Particolarmente pesante e insostenibile si era fatta la situazione nei paesi del Reventino dove le truppe dei francesi imposero ogni genere di vessazioni e abusi.
Conflenti, bisogna ricordarlo, era il paese di Panedigrano, uno dei briganti più temuti dai Francesi, che in questa situazione aveva scortato i principi reali in Sicilia.
A seguito di uno dei tanti episodi di spregevole brutalità da parte dei francesi, a Soveria scoppiò una rivolta, che immediatamente si diffuse nei paesi vicini, soprattutto Conflenti e Martirano ma, poi, anche a Gizzeria e Sambiase. La reazione francese fu brutale, pesantissima, in particolare a Conflenti e Soveria, focolai della rivolta, che vennero messi a ferro e fuoco. Nel nostro paese i transalpini riuscirono a individuare e catturare perfino un giovanissimo figlio di Panedigrano, che da lì a poco venne giustiziato a Cosenza.
Malgrado la brutale repressione e nonostante le terribili punizioni individuali inflitte ai rivoltosi, molti insorti, nascosti negli inaccessibili rifugi di montagna, non si erano per nulla rassegnati alla sconfitta.
Il focolaio della rivolta covava e dopo un paio di mesi, un manipolo di seguaci di Panedigrano, comandato dal figlio Gennaro, assaltò ad Acquabona un drappello francese guidato in qualità di ufficiale dal famoso Paul Louis Courier, scrittore e studioso autore di varie opere di notevole ingegno.
Courier e i suoi, furono spogliati di ogni cosa e condotti nudi dopo un lungo cammino, in un nascondiglio nei pressi di Conflenti. Qui i malcapitati divennero oggetto di scherno e di sevizie per alcuni giorni.
Intanto a Conflenti, di ritorno dalla Sicilia, era rientrato Panedigrano per effettuare un nuovo reclutamento di massa contro i francesi.
La sua prima azione, malgrado fosse stato messo al corrente della cattura del figlio, fu una sorprendente azione di magnanimità e generosità.
Quando dal figlio Gennaro gli furono messi davanti i francesi catturati e destinati alla fucilazione, Panedigrano, dimostrando una grande sensibilità, colpito dalla grande dignità che mostrava Courier a differenza dei suoi compagni che imploravano pietà, salvò da morte sicura l’ufficiale francese.
Panedigrano, infatti, persuase i suoi compagni a lasciare a lui la cura di seviziare il prigioniero perché, disse, voleva vendicarsi della cattura del figlio.
Lo fece, quindi, accompagnare in paese e lo rinchiuse in un sotterraneo della sua casa, che era vicino al Piro, e più precisamente quella attualmente occupata dalla nostra cara Donna Franca. Qui durante la notte, conversò a lungo con lo scrittore e poi, certamente per rispetto dell’uomo di cultura, che si era dichiarato solo spettatore e cronista di quella guerra, decise di lasciarlo libero e farlo fuggire, dandogli pure una scorta, affinché potesse raggiungere, attraverso le scorciatoie, Nicastro.
Gli spiegò che aveva mostrato accanimento verso di lui solo per poterlo salvare, quindi gli aprì le porte e lo fece fuggire.
L’episodio è stato in seguito ricordato dallo stesso Courier nelle sue memorie e dallo storico Sacchinelli nel libro sulla vita del Cardinale Ruffo.
Di V. Villella
UNA PASSEGGIATA SU CORSO GARIBALDI DEGLI ANNI ‘4O
Sicuramente a ognuno di voi, passeggiando su e giù per Corso Garibaldi, la strada più importante di Conflenti, è capitato di chiedersi come era questa strada un tempo e da chi era abitata.
A noi, lo sapete, piace raccontare il passato, recuperare la memoria storica dei luoghi e allora ammirando le stupende foto storiche del maestro Umberto Stranges e guidati dal racconto emozionante del professor Corrado Roperti, abbiamo fatto un fantastico viaggio a ritroso nel tempo, portandoci su Corso Garibaldi degli anni quaranta del secolo scorso.
A quel tempo tutto era molto diverso da come ci appare oggi
Le case erano tutte prive di intonaco (che bello!), rivestite in pietra civata e piene di buche pontaie, quasi tutte più basse di un piano, aggiunto poi generosamente col tempo.
Il piano stradale era completamente diverso, non esistevano né cunette né marciapiede, l’inclinazione del piano stradale era esattamente al contrario, con l’acqua che defluiva verso il basso dal centro della strada.
Lastre in pietra…
Il selciato era costituito da grosse pietre abbastanza regolari e piatte, portate faticosamente coi muli dal fiume Salso. Al centro c’erano due strisce quasi continue, a distanza di circa un metro l’una dall’altra, formate mettendo in fila le caratteristiche basulate, ossia, pietre vulcaniche di forma rettangolare.
Le basulate erano state posizionate in quel modo per creare un percorso obbligato più agevole per il transito dei carri e delle poche auto allora esistenti.
Purtroppo però avevano una controindicazione molto sconveniente perché rendevano molto complicato il passaggio di asini e muli che, soprattutto quando erano carichi, non riuscivano quasi a restare in piedi scivolando di continuo sulle basulate.
Per eliminare questo inconveniente il Podestà di allora provvide a fare creare delle scanalature su ognuna di esse da un “mastro locale”.
Ai cigli della strada, poi, erano distribuiti alcuni caratteristici blocchi di pietra di forma cilindrica, cavati dai mastri scalpellini del basso Savuto.
Queste grosse pietre non erano altro che una sorta di stazione di sosta per lo scarico della merce dalle ceste dei muli, in pratica mentre si caricava o scaricava una delle ceste vi si poggiava l’altra, così da mantenere l’equilibrio e alleggerire l’animale.
Di queste pietre oggi ne rimane una sola, nei pressi di Palazzo Montoro.
Ai gerarchi fascisti del tempo piaceva dire che questo blocco era stato portato direttamente dall’Africa durante la campagna di Etiopia.
Sui muri di alcune case poi erano attaccati degli anelli di ferro che servivano per legare gli animali da soma, di questi maniglioni ne rimangono ancora alcuni su Palazzo Folino.
Altra curiosità che vogliamo raccontarvi riguarda le due mensole di marmo bianco ancora visibili su Palazzo Montoro, che erano state messe in quel periodo accanto all’entrata della Casa del Fascio e reggevano simboli del regime.
A quel tempo ovviamente non esisteva Piazza Pontano e la curva di fronte a Palazzo Isabella era molto stretta e delimitata da un piccolo muretto, che si interrompeva alla fine della curva perché c’era una fila di piccole case che portava alla cava del “fiego”.
Ma chi abitava e cosa c’era sulla strada più importante del paese in quegli anni?
Su Corso Garibaldi vivevano nei loro bei palazzi nobiliari le famiglie più ricche e influenti dell’epoca: la famiglia Montoro del medico del paese, don Vittorio, la famiglia del mitico Comandante Stranges, Ammiraglio della Regia Marina, la famiglia Isabella del Podestà di quel tempo, e ancora le famiglie Pontano e Roperti dei due influenti farmacisti del paese e le famiglie Calabria, Talarico, tutti ricchi possidenti terrieri. E ancora la casa di Don Stefano, il prete esorcista col famoso purtune du paracu, e poi scendendo le case dei “Dduoghi’ discendenti dei nobili Vescio e ancora sotto in zona San Giuanni i palazzi nobiliari più antichi di Conflenti.
M a Corso Garibaldi era anche un pullulare di gente e su di essa si concentravano gli uffici più importanti e le attività che hanno fatto la storia del paese.
Su di esso c’erano la Caserma dei Carabinieri dell’indimenticato maresciallo Talia, la casa del Notaio Mastroianni e dei suoi figli, avv. Aldo e l’altro medico Don Lino, l’Esattoria e soprattutto il Municipio con sotto la molto temuta Casa del Fascio, del potente segretario Giuanni ‘e Giuliu.
Per quanto riguarda le attività è doveroso il primo moderno bar del paese, quello di Rinuccio (attuale bar Centrale), il mitico salone di mastru Pulitano barbiere specializzato in sfumatura alla tedesca e munnareddre e, in una piccola traversa, alla locanda di Bertu e Prigatoriu, unico albergo del paese e ancora la sartoria di Peppino Villella, conosciuto come Peppino ‘e Ferrante.
Il viaggio nel tempo finisce qua, ci auguriamo che sia stato divertente.
RADIO GRANDANGOLARE
Tra gli anni ’70 e ’80 a Conflenti c’era un grande fermento culturale e politico. Allora il piccolo centro del Reventivo contava oltre tremila abitanti. I giovani avevano sete di conoscenza e di voglia di fare. In questo contesto nasce “Radio Grandangolare”. Una radio vera e propria che trasmetteva sulle frequenze 99 e 106 MHz ed era ascoltata perfino in Sila.
La nascita di Radio Grandangolare
Nell’ambito del centro di cultura diretto da Pasquale Paola si pensò di creare una radio libera già sul finire degli anni ‘70. Esisteva un periodico con il nome “Grandangolare” al quale successivamente fu associata anche la radio in Fm che trasmetteva 24 ore su 24. Venne regolarmente istituita e furono comprate tutte le attrezzature necessarie. Così le tristi sere d’inverno a Conflenti divennero più briose. Chi ha vissuto quegli anni ha forte nostalgia di quell’esperienza di unione ma anche formativa. Grazie alla radio Conflenti iniziò ad essere conosciuto in tutto il territorio cosentino. Anche se fu attiva solo per una decina di anni il suo ricordo è ancora oggi indelebile.
Era un periodo politico abbastanza caldo e l’obiettivo della radio fu anche quello di unire i vari gruppi oltre a dare la possibilità a tanti ragazzi di poter parlare pubblicamente e quindi di migliorarsi dal punto di visto dialettico ed espressivo. Esisteva già anche il Centro di cultura popolare (ora Centro di educazione permanente): un laboratorio di diverse attività sportive e culturali. Il tutto sotto il nome di “Grandangolare”. Oltre una ventina i giovani che vennero coinvolti dal progetto. Si trattava di una radio importante e veniva perfino trasmessa la partita del Catanzaro che allora era in serie A. Il livello culturale a Conflenti era notevole e studiava già una percentuale molto alta di giovani
I programmi e le dediche
“Radio Grandangolare che trasmette da Conflenti è la radio… la super radio… è la radio più allegra che c’è”. Questa la sigla che da Conflenti partiva per arrivare fino in Sila. Copriva circa 80, 90 paesi in tutta la Calabria. La radio trasmetteva anche di notte con il mitico programma “L’uomo della notte”. Poi c’era “Musica magica”, “Mezzogiorno di fuoco” e, ancora, “La battaglia navale”. Molto in voga e apprezzato anche il programma “Exstensive”. La sezione dedicata alla musica a richiesta, domenica mattina alle 8 c’era infatti anche un programma di cantautori. Tantissime le chiamate in diretta.
C’è chi ricorda anche di tanti amori sbocciati grazie alla radio e alle sue famose dediche. Chi ha vissuto quegli anni ricorda con nostalgia anche di bigliettini lasciati in forma anonima sotto il portone della sede. Una pagina culturale che merita di essere ricordata e tramandata.
U PURTUNE DU PARACU E PIAZZA PIRO
Il portone del Parroco! Il salotto buono di Piazza Piro, una piazza che esiste solo nella testa dei conflentesi. Ma d’altra parte un salotto di quel tipo meritava una piazza, e così in mancanza di una vera qualcuno se l’è inventata.
E quello spazio angusto, che era venuto fuori dal piccolo incrocio, lo abbiamo utilizzato come piazza, anche a costo di stringerci a mucchio in alcune occasioni come i comizi, che stranamente con tanti posti migliori, si tenevano proprio là.
Poi, fortunatamente, qualcuno ha pensato bene che era arrivato il momento di costruirne una vera, là vicino, e ci ha regalato Piazza Pontano.
Dicevamo del portone del parroco, luogo di ritrovo e di osservazione: ti fermavi un poco e l’intero paese ti sfilava davanti. D’altra parte non potevi passare senza fermarti, era una sosta obbligata, come ad una barriera doganale, un tributo da pagare per il tuo essere del paese: più eri del paese e più tempo avevi speso al portone.
‘U purtune du paracu!
Da adolescenti tutti a stringerci a strinci vutte per entrarci tutti assieme, fino a quando non si superava il limite degli schiamazzi e vi poneva fine, silenzioso ed improvviso, dal finestrino sovrastante il getto d’acqua della za monaca.
Il limite non era dato saperlo, dipendeva dall’ora e dalla pazienza della za monaca, dall’intensità degli scossoni inflitti al portone.
Portone! Quante storie hanno ascoltato i tuoi gradini; quante pene d’amore riversate nell’orecchio confidente dell’amico; quante angosce trasferite all’altro che ti si avvicinava sempre più man mano che il racconto si faceva più struggente.
Quante storie hai ricevuto senza mai tradirle, quanti ricordi incorniciati dall’arco del tuo portale ci siamo portati dietro nel viaggio della nostra vita sotto i cieli più lontani: quante volte ti abbiamo evocato nella domanda di rito rivolta al compaesano incontrato per caso in giro per il mondo: e cchi se dice a ru purtune du paracu.
Di Franco Stranges
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