CONFLENTI CORRADO FERLAINO E MARADONA
Nessuno pensa che tra Conflenti e Diego Armando Maradona, il più forte calciatore di tutti i tempi, possa esserci un legame, eppure c’è, ed è molto forte.
Già intorno agli anni ’70, alcuni nostri compaesani emigrati in Argentina, che vivevano a Lanus e avevano avuto il privilegio di conoscere nel barrio poverissimo di villa Fiorito il fuoriclasse argentino fin da piccolo, tornati a Conflenti ne avevano raccontato le gesta quando ancora nessuno in Italia lo conosceva.
Addirittura, si racconta di tal R. Orlando, un giovane figlio di emigrati conflentesi che faceva parte delle famose “cebollitas”, la squadra giovanile in cui giocava Maradona che aveva incantato e fatto innamorare tutta Bunos Aires per le incredibili gesta di quei ragazzini invincibili.
Ma il legame non si ferma qui.
Casa Ferlaino, che ha dato i natali al famoso giudice Francesco Ferlaino, nostro illustre compaesano caduto sotto i colpi della mafia dopo aver condotto una grande battaglia contro di essa, è stata anche la casa di Modesto Ferlaino, fratello del giudice e papà di Corrado Ferlaino.
Si, proprio Corrado Ferlaino, il famoso presidente del Napoli, diventato popolarissimo nel mondo, per aver avuto il merito e la capacità di portare in Italia il fuoriclasse argentino, senza ombra di dubbio il calciatore più forte di tutti i tempi.
E in realtà, anche Corrado Ferlaino, fin da piccolo, è stato un assiduo frequentatore di quella casa e di Santa Maria dove, come tutti i bambini di questo rione, si divertiva a giocare a calcio sul sagrato del Santuario.
Da buon conflentese, poi, e fino a quando ha potuto, ha sempre visitato Conflenti e reso onore alla Madonna nei giorni della festa.
Addirittura, durante una delle sue ultime apparizioni a Conflenti, ha manifestato il suo supporto alla locale squadra di calcio divenendone presidente onorario.
Per questo motivo, ai tanti italiani che hanno avuto la fortuna di ammirare le incredibili gesta di Maradona, vogliamo ricordare – e lo rivendichiamo con orgoglio – che ciò è avvenuto per merito di un figlio di Conflenti.
IL RITUALE DELLA MESSA DI DOMENICA MATTINA
Oggi come un tempo, la messa di domenica mattina è un appuntamento da non perdere per credenti e non credenti. È un’occasione per ritrovarsi e raccontare gli avvenimenti della settimana e spesso la preghiera diventa un fatto puramente marginale.
Un tempo c’era un rituale ben preciso, studiato nei minimi dettagli.
I primi ad arrivare erano gli uomini anziani. Alle otto in punto erano quasi tutti sul sagrato. Si formavano piccoli gruppi rigorosamente divisi per differenze economiche e sociali. Tra loro non c’era quasi mai comunicazione. Nel rispetto delle regole della tradizione, le donne giungevano più tardi. Un ritardo voluto perché si aspettava che la platea fosse al gran completo. Sapevano di essere osservate e procedevano senza fretta, con movimenti lenti e ben studiati. Quel momento tanto atteso da una settimana era da consumare lentamente e tutto da sfruttare, soprattutto per chi era ancora da sposare. Da uno sguardo furtivo e ricambiato poteva venir fuori il grande amore e soprattutto un matrimonio.
Le messe erano due. La prima all’alba o quasi. La chiamavano letta e durava poco. Era la messa per chi aveva altre occupazioni durante la giornata. O per chi aveva un solo vestito per tutte le stagioni.
La messa solenne, invece, cominciava alle dieci. Era la messa dei giovani e dei benestanti del paese. Era preannunciata da un lungo scampanio; era cantata e durava più di un’ora. Per uomini e donne era l’occasione buona per ammirare ed essere ammirati.
Anche in chiesa c’era una tradizione da rispettare: si stava rigorosamente separati per età, sesso e condizione sociale. I signori avevano posti riservati. Le donne tutte sedute nelle prime file, gli uomini tutti indietro e in piedi. Le ultime file di banchi erano riservate agli uomini anziani. Ogni contatto era da evitare e pertanto la comunione veniva data prima alle donne e poi agli uomini. La messa era in latino. Parlare e pregare era una cosa normale, ci si scambiava le ultime notizie. L’uscita dalla messa era una nuova occasione da sfruttare, l’ultima della settimana. Altri sguardi e sorrisi alla ricerca di conferme. Si rallentava il passo per allungare il tempo del ritorno mentre l’occhio vagava alla ricerca di uno sguardo o di una persona. Un ricordo da serbare fino alla domenica seguente.
di A. Coltellaro
LA BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI
Fino agli anni ‘80, nei giorni precedenti il 20 settembre, il sagrato del Santuario e spesso pure la chiesa erano teatro del passaggio e della sosta di ogni sorta di animale diretto alla fiera di Decollatura.
Mucche, buoi, cavalli, muli, capre e spesso anche asini insieme ai loro padroni salivano da scagliuni, provenienti da Martirano e dai paesi del Savuto. La salita era dura e la sosta, approfittando della fontana della piazza, quasi obbligatoria.
Ma, soprattutto nel passato, la sosta non si faceva solo per rifocillare gli animali.
Animati da un fervido sentimento religioso infatti, i proprietari degli animali, li portavano in chiesa, ai piedi della statua della Madonna, per una santa benedizione fai da te.
Il grande sentimento che legame la gente del circondario alla nostra Madonna, sfociava anche in manifestazioni molto strane, quasi pagane, come questa che avveniva nei giorni della fiera della cucuzza di Decollatura e, a dire il vero, anche in altre occasioni.
La benedizione avveniva con un rituale molto particolare, si costruivano delle collane a cui venivano attaccati dei soldi che si mettevano sul collo degli animali, che poi con questi doni entravano in chiesa.
Alla fine della benedizione le offerte rimanevano alla Madonna e si continuava con molta più fiducia il cammino verso la meta.
Per i ragazzi, assidui frequentatori di quello che era il loro unico campo di gioco (il sagrato) questi giorni erano vissuti come era un vero dramma.
Gli animali, durante la sosta, e approfittando della relativa tranquillità, defecavano e lasciavano tracce molto evidenti del loro passaggio.
E se la pioggia non arrivava a salvarli, i poveri ragazzi erano costretti ad arrangiarsi e ripulire in tutta fretta il loro campo di gioco.
Purtroppo per loro, però, passavano pochi giorni e il problema si riproponeva in modo ancora più rilevante in quanto in tanti, alla fiera andavano solo per comprare, e alla fine della fiera, ritornavano a casa coi nuovi acquisti e quindi, inevitabilmente, toccava di nuovo ripulire.
Poveri bambini…..
LA FESTA DELLA MADONNA NEL MONDO
La festa solenne della Madonna della Quercia si celebra l’ultima domenica di agosto. È la festa simbolo del paese, la ricorrenza di cui ogni conflentese, credente o meno, non può fare a meno. È preceduta dalla novena e si arricchisce di eventi quali la fiaccolata e l’incoronazione della Vergine, particolarmente sentiti e partecipati dai devoti.
In chiesa, la sera della vigilia, nel rispetto della tradizione, si partecipa alla santa veglia, durante la quale, paesani e forestieri, per voto fanno ‘a nuttata (vi trascorrono la notte). Un tempo, invece, il venerdì era usanza fare ‘a jurnata, così detta perché i fedeli rimanevano tutto il giorno nel luogo di culto, a cantare da mattina a sera.
La giornata più importante rimane la domenica, quando alle funzioni liturgiche prendono parte migliaia di pellegrini. Si comincia alle 10.30, con la Messa solenne officiata dal vescovo, durante la quale il Sindaco offre il cero votivo alla Madonna. Questo rito rappresenta un ringraziamento in forma ufficiale, da parte primo cittadino, alla particolare protezione che la Vergine garantisce da sempre al popolo conflentese.
Alle 17.00 segue la solenne processione della statua, che si snoda per le vie del paese. Vi partecipano il clero e le autorità civili e militari, seguiti da un’enorme folla. La devozione popolare, che a volte sconfina nel fanatismo, resta pur sempre l’espressione sincera di un sentimento genuino che accomuna tutti. Al termine della processione, la statua rientra in chiesa e la festa religiosa si conclude tra la commozione generale mentre, all’esterno, continuano i festeggiamenti civili.
Momento particolarmente toccante è quello della ricollocazione della statua nella nicchia posta sull’altare maggiore, che avviene il lunedì successivo. Il Santuario si riempie di nuovo di fedeli e tutti cercano di sfiorare il simulacro, verso il quale si fa quasi fatica a staccare lo sguardo. I volontari prendono il bambinello, lo affidano alle suore, e sostituiscono la corona posta sul capo della Vergine. È questo un altro momento di grande emozione, che coinvolge tutti. È il momento conclusivo, perché segna la fine della festa e, con essa, l’anno dei conflentesi.
Non tutti sanno che nei 25 anni immediatamente successivi alla costruzione del tempio, la festa si celebrò il 25 giugno. Solo in seguito, e precisamente dal 1607, si stabilì che il dì festivo e solenne dedicato alla Vergine fosse spostato all’ultima domenica di agosto, perché in giugno la gente era occupata nelle campagne a raccogliere le messi e non poteva partecipare alle funzioni religiose.
Nei secoli passati, la processione fu accompagnata da una solenne fiaccolata nel cuore della notte. Ciò si ripetè fino a quando, per motivi di ordine pubblico, Ferdinando IV Re delle Due Sicilie la proibì.
L’origine della fiera è anch’essa molto antica, a sottolineare l’importanza che man mano aveva acquistato la festa della Madonna della Quercia di Visora. Nell’anno 1695, il re Carlo II stabilì che intorno al Santuario si potesse allestire un mercato per un periodo di tre giorni, che subito dopo furono estesi ad altri sei da Carlo III. Nacque così la Fiera di Visora, che aveva un’importanza enorme e veniva ufficialmente aperta dall’agente baronale al suono dei tamburi. Partecipare alla Fiera era un privilegio di cui non tutti godevano. La Fiera non era solo il luogo in cui si compravano e vendevano prodotti. Qui, locatari e proprietari terrieri si davano appuntamento per il pagamento dei fitti e dei censi in scadenza.
La festa della Madonna della Quercia si festeggia anche in molte parti del mondo.
Le comunità di conflentesi sparse nel mondo, che hanno radici ben salde nel paese natìo, per mantenere vivo questo legame hanno riproposto questa festa nelle città in cui si sono stabiliti.
E così, a Buenos Aires in Argentina, Sidney e Melbourne in Australia, Toronto in Canada ma anche a Borgo Ticino in nord Italia, in contemporanea con le nostre celebrazioni, si vivono le stesse emozioni che noi viviamo in paese.
In questo giorno, tutti i conflentesi nel mondo, seppur molto lontani gli uni dagli altri, si sentono parte integrante di un’unica grande comunità. Uniti in un abbraccio virtuale che supera monti e oceani, festeggiano l’amata patrona con gli occhi lucidi e il cuore ricolmo dalla stessa identica commozione.
LA VISITA DEL RE D’ITALIA VITTORIO EMANUELE III
Il terremoto del 1905 aveva colpito gravemente Martirano producendo lutti e rovine ed era annunciata una visita del Re ai luoghi del disastro.
Egli arrivò con una autovettura a Santa Maria, dove si radunò una folla di curiosi per vederlo col suo seguito. Fece una piccola sosta e gli vennero offerti in dono molti prodotti locali.
Il Re apprezzò in modo particolare il pane di farina di castagna che commentò come “pane dolce al sapore di miele”.
In fretta era stata bonificata alla meno peggio la strada di collegamento da Scagliuni per consentire il passaggio verso Martirano.
Il proseguimento era possibile solo a dorso di asino e per il Re erano stati impegnati una mula, una bella sella e Cicciu, il palafreniere, tutto messo a disposizione da Don Rodolfo Isabella che poi conservò per lungo tempo la sella.
Cicciu conduceva la cavalcatura per la cavezza e consapevole dell’incarico avuto stava accorto ad evitare all’angusto personaggio ogni difficoltà; da un po’ di tempo però vedeva che questi, quando il sentiero diventava più ripido, allargava le gambe e spingeva coi piedi nelle staffe, come se cavalcasse un cavallo. Allora gli sovvenne che la mula era ombrosa e che se avesse avuto qualche scarto avrebbe disarcionato il trasportato con ogni intuibile conseguenza; decise perciò di informarlo immediatamente: “O Rre, strinci ‘e cosce c’a mula è vizzarra e te jetta”(o Re, stringi le gambe perché la mula è ombrosa e ti disarciona) e quello, sentendosi interpellato, senza capire il senso delle parole rispose: “ma cosa dice brav’uomo , cosa dice?”
Anche Cicciu non aveva capito che il Re non avesse capito; d’altra parte come poteva pensare che il Re non avesse inteso quando lui era stato così chiaro, e lasciò correre per non importunare.
A breve però una certa tensione trasmessagli dalla cavezza lo portò a rinnovare l’invito: “O Rre, taiu dittu mu strinci e cosce ca a mula è vizzarra e te jetta”.
L’interpellato ancora non volle capire e rispose col suo” Ma cosa dice brav’uomo, cosa dice mai?”e continuò ad allargare le gambe e a spingere nelle staffe, al che spontaneo ed immediato il commento del premuroso palafreniere: “Tu tinne futti ? e futtatinne , ca si cadi ta squatri tu ‘a crozza”(tu te ne infischi? Ed infischiatene, tanto se cadi la testa te la rompi tu).
E qui si chiuse il conversare tra il sovrano e suddito.
Di Francesco Stranges
L’origine della fiera è anch’essa molto antica, a sottolineare l’importanza che man mano aveva acquistato la festa della Madonna della Quercia di Visora. Nell’anno 1695, il re Carlo II stabilì che intorno al Santuario, si poteva posizionare un mercato per un periodo di tre giorni subito dopo estesi ad altri sei da Carlo III. Nacque così la Fiera di Visora, che aveva una importanza enorme e veniva ufficialmente aperta dall’agente baronale al suono dei tamburi. Partecipare alla Fiera era un privilegio di cui non tutti godevano. Quelli della Fiera erano non solo giorni in cui si compravano e vendevano prodotti, ma erano anche un momento particolare nel quale si davano appuntamenti per i pagamenti dei fitti tra i locatari e i proprietari dei terreni e si pagavano i censi che scadevano.
La festa della Madonna non si festeggia solo a Conflenti ma in molte parti del mondo.
Le comunità di conflentesi sparse per il mondo, che hanno radici ben salde nel paese natio, per mantenere vivo questo legame hanno riproposto la festa in onore della nostra Madonna nelle loro nuove città.
E così, a Buenos Aires in Argentina, Sidney e Melbourne in Australia, Toronto in Canada ma anche a Borgo Ticino in nord Italia, in contemporanea con la nostra festa, si vivono le stesse emozioni che viviamo noi in paese.
In questo giorno, tutti i conflentesi del mondo, seppur molto lontani gli uni dagli altri, si sentono parte di una unica grande comunità.
Uniti in un unico grande abbraccio, attraverso monti e oceani, tutti con gli occhi lucidi e con il cuore pieno della stessa identica commozione.
LE CARRUBE DEI MULI DEI BACCARI
A Santa Maria, nella curva del Santuario c’era e c’è ancora il palazzo dei Baccari.
I Baccari, intorno agli anni 50/60, erano una delle famiglie più benestanti di Conflenti ed erano proprietari di una grossa impresa boschiva.
Molte persone lavoravano per loro e, seppur proprietari di mezzi, il grosso del lavoro, considerate le impervie dei terreni, si faceva coi muli.
I muli erano una risorsa preziosissima e andava trattava con tutti i riguardi del caso.
Finita la giornata lavorativa e prima di essere rinchiusi nelle stalle, i proprietari li rifocillavano e offrivano loro delle carrube, che i poveri animali apprezzavano molto.
Purtroppo delle carrube erano ghiotti pure i bambini, che, in totale mancanza di altre ghiottonerie, apprezzavano tanto il dolce sapore di quel frutto e quindi i poveri muli venivano sistematicamente derubati del premio del loro duro lavoro.
Ma i bambini in qualche modo dovevano pure arrangiarsi e soprattutto passare il tempo con qualche marachella, che i Baccari, ovviamente facevano finta di non vedere.
LE SUORE DEL COTTOLENGO
Le suore del Cottolengo sono presenti a Conflenti da quasi un secolo, da quando, a seguito di un lascito della famiglia Maio, vennero chiamate nella nostra comunità per occuparsi del Santuario e istituire l’asilo per i bambini.
Da allora, la Casa delle suore ha costituito un riferimento educativo fondamentale, il lievito di azioni pedagogiche essenziali alla crescita umana, sociale e religiosa.
Hanno visto nascite e morti, hanno assistito a battesimi e lutti, hanno condiviso gioie e dolori di tutti e, nel periodo bellico e nel dopoguerra, hanno contribuito in modo determinante al miglioramento delle condizioni socio culturali dei conflentesi.
Se, da un canto, Conflenti ha inglobato nel proprio tessuto le Suore come sue figlie naturali, dall’altro le stesse vi si sono innestate amorevolmente da “sorelle”.
Quotidianamente, alla preghiera hanno alternato la laboriosità, secondo la tipica tradizione monastica: un tempo per pregare, uno per dialogare, uno per cooperare.
Le suore, pur tra continui avvicendamenti, hanno sempre garantito con pazienza, umiltà e tanto amore la cura del Santuario, contribuito alla crescita umana delle ragazze che si sono avvicendate nella loro scuola di ricamo, a quella dei bambini che hanno frequentato l’asilo ma allo stesso tempo hanno fatto sentire forte, seppur in maniera discreta, la loro presenza all’interno della comunità.
Grazie a essa, noi conflentesi ci siamo sempre sentiti, fra tutti i paesi del circondario, dei privilegiati.
L’asilo delle monache del Cottolengo fu istituito con l’arrivo delle suore, direttamente dalla casa madre di Torino, negli anni ‘30.
Il nostro comune fu il primo ad averne uno nel circondario e le nostre madri le prime ad usufruire di un servizio simile, con un posto sicuro dove lasciare i figli, con la tranquillità di potersi dedicare senza preoccupazioni al loro lavoro. L’asilo delle monache radunava tutti i bambini di Conflenti, che intorno agli anni ‘50 contava quasi 5.000 abitanti, e dunque straripava di bambini, oltre 50 per classe.
Tante generazioni ricordano con nostalgia quei tre anni di asilo, il riposino pomeridiano sulle brandine, il gioco dell’oca sul terrazzo, la segatura di Mastru Cicciu o Mastru Lorenzu e Mastru Ernestu sparsa nel corridoio per asciugare l’acqua nei giorni di pioggia. E anche, perché no, le sculacciate quando i bambini facevano i birbanti.
Il laboratorio di ricamo
Fino agli anni ‘60 erano poche le ragazze che continuavano gli studi dopo le elementari. I genitori ritenevano le città piene di tentazioni, quindi le tenevano in paese sotto stretta sorveglianza. Naturalmente, considerati gli impegni lavorativi, non potevano essere sempre presenti e allora le mandavano dalle suore, dove imparavano l’arte del ricamo e le regole del vivere civile.
Vi si andava quasi tutto l’anno, dalle nove del mattino fino alle quattro e mezza di pomeriggio, con un intervallo dalle dodici alle due per poter rientrare a casa e mangiare. Si pagava per poter frequentare, dapprima trecento poi cinquecento e infine mille lire. Una suora si dedicava completamente alle ragazze. Oltre al ricamo, che permetteva loro di preparare il corredo per sposarsi, si leggevano libri religiosi e si partecipava alle prove per i cori delle messe domenicali. Inoltre, ci si divertiva tanto organizzando delle gite nei dintorni e qualche volta persino più lontano.
Le giovani più brave e particolarmente dotate per questo tipo di lavoro, una volta realizzato ciascuna il proprio corredo, lavoravano per terzi, su ordinazione. Le richieste erano numerose e per lungo tempo questa attività che, dopo il laboratorio si continuava a casa, ha rappresentato una buona fonte di reddito.
LE USANZE LEGATE AL MATRIMONIO
Nella civiltà agraria, protrattasi nel meridione fino a oltre la metà del Novecento, in cui l’unica fonte di sostegno era la terra, l’istituzione fondamentale era la famiglia patriarcale. Essa era il centro produttivo e di relazione tramite i circuiti di sostegno e di reciprocità della parentela e del comparato.
Il matrimonio era l’espressione massima di questo sistema familiare e aveva una funzione sociale ed economica importantissima in quanto regolava la circolazione dei beni e delle risorse.
Per questo motivo, lungi dall’essere un fatto privato e individuale, il matrimonio come istituzione cardine su cui si reggeva tutto il sistema, aveva un grande valore simbolico, riguardava tutta la comunità ed era regolato da un iter ricco di riti e simboli, usanze e consuetudini, oltre che da un rigido controllo sociale.
Conflenti, forse per la sua atavica situazione di isolamento e sicuramente per le caratteristiche dei gruppi originari, sviluppò qualche forma espressiva particolare nel quadro comune delle usanze matrimoniali che, pur derivando nella maggior parte dal mondo greco-romano, hanno ascendenza ancestrale poiché sono presenti, con variazioni locali, non solo nelle altre regioni ma anche oltre i confini nazionali.
Non è possibile effettuare una sintesi delle complesse tradizioni matrimoniali; ne abbiamo scelte alcune che presentiamo nei tratti essenziali.
Il fidanzamento
‘U ‘mmasciature e il caffè amaro. Per le proposte matrimoniali delle classi medio alte agivano appositi intermediari che trattavano fino ad accordare le parti. Era frequente che la richiesta ufficiale venisse fatta tramite ‘u mmasciatùre. La ragazza interessata, tenuta all’oscuro delle trattative, a quel punto usciva in campo, e se il mandante non le piaceva offriva al messaggero il caffè amaro.
L’accippamento. Il rifiuto a una richiesta di matrimonio era un’offesa molto grave. Per evitare contrasti tra le famiglie, il pretendente faceva il sondaggio dell’accippamento posizionando di notte un grosso ceppo davanti alla porta dell’interessata. La mattina successiva trovava la risposta, tacita ma eloquente: se il ceppo veniva portato dentro, la risposta era affermativa; se il ceppo veniva allontanato, la risposta negativa.
Gli attentati. Per costringere una ragazza alle nozze vi erano innamorati che la compromettevano in pubblico con un gesto allusivo di intimità. Da noi si ricorreva allo scapillamento (toglierle il copricapo), o all’azzuccamento, ponendo legna bruciacchiata davanti alla sua porta.
I sondaggi del destino. Il giorno del fidanzamento si soleva fare un pandispagna, dalla cui riuscita si traevano gli auspici matrimoniali.
Le visite e le serenate. Durante il fidanzamento, le famiglie si scambiavano doni alternandosi rigorosamente nel dare e nel ricevere. Il fidanzato faceva visite all’innamorata senza mai rimanere da solo con lei e senza guardarla troppo insistentemente. Erano solite le serenate. Nella forma più antica, le canzoni erano in dialetto e nascevano dalla fantasia dell’innamorato. Successivamente, con l’avvento della televisione, la serenata diventò melodica con accompagnamento di chitarra, mandolino e strumenti aulici. Non era ammesso che la donna si affacciasse, bastava che aprisse uno spiraglio di luce per mostrare il suo gradimento.
Obblighi e controllo sociale. Era fondamentale mantenere la parola data, rispettare le consuetudini formali e sostanziali. Gli accordi tra le famiglie erano sanciti nei Capitoli, un contratto notarile dove, oltre a definire l’ammontare dei beni dotali, si decideva ogni particolare e la stessa data delle nozze. L’importanza del matrimonio, connessa alla circolazione dei beni, implicava il controllo da parte della comunità. Il controllo morale riguardava sia il comportamento dei fidanzati che delle loro famiglie. Il controllo sociale, invece, si esplicava nell’esposizione e nel trasporto del corredo. L’esposizione era allestita in casa della futura sposa, dove la gente andava a valutare la qualità e la quantità dei capi. Al trasporto dei panni nella casa maritale provvedevano numerose donne con una sfilata vistosa che attirava la gente ad affacciarsi per controllare che la famiglia della sposa avesse assolto al suo obbligo.
Il matrimonio
La scelta. La scelta matrimoniale spettava ai genitori, che seguivano criteri di ordine economico e sociale. Rientravano in secondo piano l’aspetto sentimentale e/o la bellezza, valutata solo come robustezza e sanità ai fini della prole. Per ampliare il gruppo degli scambi e per rafforzarsi socialmente, alcuni genitori sancivano promesse matrimoniali fin dalla nascita dei figli.
Consuetudini delle nozze. Era norma che fosse la parte maschile a vestire la sposa e adornarla dei gioielli nuziali, una consuetudine che svela il residuo ancestrale dell’acquisto della moglie. Fino agli anni ’20 del Novecento, l’abito nuziale era colorato. Le donne del popolo indossavano il costume tradizionale della pacchiana ma con il panno rosso come signatio corporis, secondo la norma del mondo antico di segnalare lo stato matrimoniale. A Conflenti, la sposa veniva accompagnata all’altare dal padre o da un fratello. All’uscita da casa, un parente prendeva di mira il ramo di un albero e sparava con il fucile per farlo staccare dal tronco. Ciò per simboleggiare che la ragazza si stava staccando dal ceppo delle sue origini. Durante il corteo, la gente lanciava confetti e monete che i bambini accorrevano a raccogliere. A seconda delle possibilità, si festeggiava con un ricevimento organizzato in casa con dolciumi e liquori, oppure con il banchetto nuziale.
La prova. La prova della verginità aveva carattere privato se il controllo era gestito dalla suocera. Il controllo pubblico avveniva con l’esposizione del lenzuolo.
Il rapimento della sposa. In alcuni paesi del Reventino avveniva il rito del rapimento simbolico della sposa. All’uscita dalla chiesa, i cognati la “rapivano” e la portavano nella casa maritale come segno di accettazione della nuova componente della loro famiglia.
La fujuta. Ricorreva alla fujuta chi non rinunciava a sposarsi per amore. Era una scelta molto difficile perché creava ostilità con le famiglie ed emarginava socialmente i fuggiaschi, che non avevano rispettato le norme comuni sottraendosi al controllo sociale e al sistema familiare dei circuiti.
L’accoglienza. La suocera accoglieva la sposa sulla soglia di casa con un dono, che solitamente era rappresentato dal fuso o dalla conocchia. Si tramanda che a Conflenti avvenne uno scambio augurale particolare:
Suocera: “Bona venuta, nora mia ‘mpalazzu, mu cce pue restare quanto ‘a nive de marzu!”
Nuora: “Ben trovata, donna mia gentile, mu cce pue durare quantu ‘a nive d’aprile!”.
di Vittoria Butera
PROVERBI PAESANI
Il proverbio è una sentenza breve, incisiva, alcune volte rimata o espressa per metafora, che ha per lo più uno scopo morale e condensa un insegnamento tratto dall’esperienza.
Lo spirito che è presente dietro ai proverbi conflentesi, e ovviamente anche calabresi, ne rispecchia l’indole che è quella di essere ironici e schietti senza essere offensivi.
I proverbi sono la sintesi della sapienza dei popoli, hanno sempre profonde radici popolari e offrono uno spaccato della società e della cultura da cui provengono.
Più di ogni altra cosa ci permettono di far risorgere il mondo degli antichi e di scoprirne abitudini di vita, usi, costumi, idee, paure, ossessioni, odi e amori.
La loro funzione è stata fondamentale nella storia della nostra regione, perché, in un popolo poco acculturato, sostituendo i libri scritti, hanno tramandato, da una generazione all’altra, notizie e insegnamenti di gran valore sul nostro modo di vivere.
Vediamone alcuni che fanno direttamente riferimento alla cultura contadina e che quindi utilizzano metafore che rimandano al comportamento degli animali o alla natura. Da esse si evince il forte legame dell’uomo con la terra, l’ambiente naturale e gli animali, uniche risorse di quella società.
‘U cane muzica sempre aru sciancatu (Il cane morde sempre il pezzente. In ogni situazione ci rimette sempre il più debole).
‘U ciucciu chi ‘un fa ra cuda ari tri anni,’un ra fa cchiù (L’asino che non fa la coda dopo tre anni, non la fa più. Se non si riesce a fare qualcosa dopo un certo tempo, non si riesce più).
‘A gatta presciarola fa i gattariaddri cicati (La gatta che ha fretta fa i figli ciechi. Le cose fatte in fretta spesso non riescono bene).
Quannu ‘a vurpe un junce all’uva, dice ca è amara (Quando la volpe non riesce a prendere l’uva dice che è amara. Quando qualcuno non riesce a fare qualcosa, trova sempre una giustificazione).
Chine piacura se fa, ‘u lupu s’u mangia (Chi si fa pecora, il lupo se lo mangia. Chi è mite e paziente subisce torti e soprusi).
Un futtuliare ‘u cane ca dorme! (Non stuzzicare il can che dorme. Potrebbe morderti).
E cirase se coglianu viscannu! (Le ciliegie si raccolgono fischiando, per non mangiarle).
L’aggiaddru intra ‘a caggia, un canta ppe amuri, ma ppe raggia! (L’uccello in gabbia non canta per amore ma per rabbia. Non tutti quelli che cantano sono felici).
Quannu chiova, ‘mpesate e va, ca quannu scampa te truavi ddra! (Quando piove preparati e vai, che quando smetterà ti troverai là. Anticipa gli eventi, avrai un vantaggio).
Megliu ‘nu ciucciu vivu ca ‘nu miadicu muartu (Meglio un asino vivo che un medico morto. Meglio una cosa di poco valore ma utilizzabile, che una di valore ma inservibile).
Chine un tene puarcu e uartu, è muartu (Chi non ha maiale e orto è morto. Una volta, terra da coltivare e carne da mangiare erano fondamentali, senza di essi si rischiava la fame).
Acqua passata un macina mulinu (L’acqua che è passata, non fa girare il mulino. Le occasioni bisogna coglierle al momento opportuno).
Quannu ‘u gattu se lava o chiove o jazza (Se il gatto si lava, piove o nevica. È un segnale di cambiamenti atmosferici).
Chine va aru mulinu, se ‘mparina (Chi va al mulino, si riempie di farina. Le esperienze lasciano sempre traccia).
U lupu cangia ru pilu, ma no ru viziu (Il lupo può cambiare il pelo ma non il vizio. Occhio a chi fa finta di cambiare!).
Puru i pulici tenanu ‘a tusse (Pure le pulci tossiscono. Anche gli individui più insignificanti devono dire la loro).
‘A gaddrina fa ll’ova e aru gaddru le vruscia ‘u culu, oppure a piacura se munge e ru zimmaru se dola (La gallina fa le uova e al gallo brucia il culo. Quando si munge la pecora, il montone si duole. Quando qualcuno si fa il bello del lavoro degli altri e si lamenta pure).
Quannu ‘a gatta un c’è, i surici abbaddranu (Quando la gatta manca, i topi ballano. Nell’assenza di qualcuno che controlla, gli altri ne approfittano per concedersi tutte le libertà).
Attacca ‘u ciucciu dduve ‘u patrune vo’ (Lega l’asino dove vuole il padrone. Asseconda il tuo datore di lavoro, senza pensarci troppo, di sicuro non potrà farti problemi).
Ad abbivirare carduni se perda sulu tiampu (A innaffiare i cardi si perde tempo. Non perdere tempo a fare cose inutili).
‘A gaddrina ca camina se ricoglia ccu ra vozza chjna (La gallina che va in giro torna sempre col gozzo pieno. Chi si impegna, qualcosa conclude).
‘A gaddrina va spinnata dopu morta (La gallina va spennata dopo morta. Ogni cosa a suo tempo. Non contare su una eredità prima di averla).
‘A gatta da’ dispensa cussì cum’è penza (La gatta della dispensa com’è, pensa. Si dice quando qualcuno giudica gli altri sulla base delle sue idee e del suo comportamento.
A lavare ‘a capu aru ciucciu se perda tiampu e sapune (Se si lava la testa all’asino, si perde tempo e sapone. È lavoro inutile, voler istruire la gente stupida).
‘A malaerva (o gramigna) un mora mai (L’erba cattiva non va mai via. La gente cattiva è come l’erba infestante, si trova sempre).
‘A nive ‘e marzu dura quantu ‘a fimmina in palazzu (La neve di marzo dura quanto una donna di servizio in un palazzo, cioè poco).
‘A nive porta pane e l’acqua porta fame (La neve porta pane e l’acqua porta fame. La neve è utile, l’acqua dannosa).
‘A petra ca ‘un fa lippu, ‘u jume s’a ‘mpesa (La pietra che non fa muschio il fiume se la porta via. Se qualcuno non si adatta all’ambiente prima o poi va via).
Cane c’abbaia, un muzica (Cane che abbaia non morde. Non temere chi minaccia sempre).
Chiddru ca ‘un vue, a l’uartu te nasce (Nell’orto spunta ciò che non vuoi. Spesso accade ciò che non vorresti).
Chine simina spine, un po’ jire scauzu (Chi semina spine non può andare scalzo. Chi fa del male deve stare attento alle conseguenze).
Cucinala cumu vue, ma sempre cucuzza è! (Cucinala come vuoi, sempre zucca è! Ti puoi sforzare quanto vuoi ma se la materia prima è di scarsa qualità, anche il risultato non è buono).
Dare cumpiatti ari puarci è tiampu piarsu (Dare confetti ai porci è tempo sprecato. Fare qualcosa per chi non apprezza è tempo perso).
Jennaru siccu, massaru riccu! (Gennaio secco, contadino ricco. È segno di buon raccolto).
L’acqua e giugnu, rovina ‘u munnu! (L’acqua di giugno rovina il mondo. È segno di cattivo raccolto).
Si l’acqua fossa bona un (se pirdessa) jessa ‘u jime appinninu (Se l’acqua fosse preziosa non scorrerebbe giù nei fiumi. In questo caso, l’acqua è intesa come bevanda.
‘U lignu stuartu ‘u fuacu l’addirizza (Il legno storto lo raddrizza il fuoco. In certe situazioni solo i metodi forti possono ristabilire l’ordine).
‘A mala cumpagnia te porta ara mala via (La cattiva compagnia ti porta nella cattiva via).
L’uaminu gilusu, mora curnutu (L’uomo geloso, muore cornuto).
Chine se marita è cuntiantu ppe nu juarnu, chine ammazza ru puarcu resta cuntiantu ppe tuttu l’annu (Chi si sposa è contento per un giorno, chi uccide il maiale lo è per tutto l’anno. Si sottolinea l’utilità del maiale che sfama per un anno intero).
‘E dduve nescia s’asca, de ssa nuce masca! (Il ramo che cresce da un albero è come l’albero stesso, ovvero, i figli sono come i genitori).
Megliu nu surice ‘mmianzu a dui gatti, ca nu malatu ‘mmianzu a dui miadici (Meglio un topo tra due gatti che un malato tra due medici. Sfortunato il paziente che è sotto le cure di due medici).
Ogne savurreddra (pietruzza) aza na turriceddra! (Ogni pietruzza serve per elevare una torre. I grandi obiettivi si raggiungono con tanti piccoli sacrifici).
Questi proverbi, invece, fanno riferimento alla saggezza popolare di una società povera, con poche possibilità di migliorare la propria condizione e in cui le precarie condizioni di vita ponevano come problema principale quello della sussistenza. Per poter sopravvivere bisognava lavorare duramente, essere “svegli” (fino alla diffidenza) e sfruttare tutte le occasioni.
‘A pratica vincia ara grammatica (La pratica vince la grammatica. L’esperienza conta più dello studio).
Chine bellu vo’ parire, gran dulure ha dde patire (Chi bello vuole apparire gran dolore deve patire. Senza soffrire non è possibile raggiungere grandi obiettivi).
Chine de speranza campa, affrittu more (Chi di speranza vive, disperato muore).
Chi tardu arriva malu alloggia (Chi tardi arriva male alloggia. Bisogna essere solerti).
‘Mpara l’arte e mintala de parte (Impara l’arte e mettila da parte, saper fare qualcosa è sempre utile).
Chine tene arte, tene parte (Chi ha arte, ha parte. Nella società conta chi ha un mestiere).
Guardate du riccu ‘mpoveritu e du povaru arricchisciutu (Guardati dal ricco impoverito e dal povero che si è arricchito. Fai attenzione a chi cambia condizione, non sa adattarsi alle nuove situazioni).
A tavola misa, chine un mangia, perda ra spisa (Quando la tavola è bandita, chi non mangia perde la spesa. Se sei invitato e non mangi, hai solo da perderci).
Paga caru, ca sta ‘mparu (Le cose che costano di più, hanno maggiore qualità).
L’abbuttu un crida aru dijunu (Il sazio non crede all’affamato. Chi non vive una determinata situazione non può comprenderla).
I guai da’ pignata i ssa ‘a cucchjara ca rimina (I guai della pignatta li sa solo il mestolo che ci gira. I problemi di una famiglia li sanno solo i suoi componenti).
Dduve c’è gustu un c’è perdenza (Dove c’è gusto non c’è perdita. Niente può ostacolarci quando facciamo qualcosa che ci piace).
Fa bene e scordate, fa male e pensace (Fai bene e dimentica, fai male e pensaci. Far bene dovrebbe essere una cosa naturale, senza pensare ai vantaggi; mentre bisogna ricordarsi sempre del male che si è fatto).
‘U patreternu manna viscuatti a chine un tene dianti (Il Padreterno manda biscotti a chi non ha denti. Spesso le opportunità capitano a chi non sa o non può sfruttarle).
Ara cacareddra un ce po’ culu stringere (Ci sono situazioni in cui si è costretti a cedere).
Chine tene sordi fa sordi, chine tene piducchi fa piducchi (Chi ha soldi fa soldi, chi ha pidocchi fa pidocchi. In una società chiusa, come quella contadina, non c’era possibilità di migliorare la propria condizione. Il ricco rimaneva sempre ricco e, viceversa, il povero sempre povero).
Quannu ‘u culu ventija, ‘u miadicu passija (Quando si scoreggia, il medico passeggia perché vuol dire che si sta bene).
Cazzu ammanicatu un guarda parintatu (Pene indurito non si preoccupa delle parentele. L’attrazione sessuale prevale sul buon senso).
Panza chjina canta, no cammisa janca (Pancia piena canta, non camicia bianca. Ci sono delle priorità: prima si mangia, poi si pensa ad apparire belli).
Senza sordi un se cantanu misse (Senza soldi non si cantano messe. Senza soldi non si fa nulla, neanche la messa ti cantano in chiesa).
Po’ cchiù nu pilu all’iartu ca nu sciartu (una fune) aru pinninu (Tira di più un pelo in salita, che una fune in discesa. L’attrazione sessuale ha un potere smisurato).
Va ccu ri megliu e tie e facce ‘a spisa (Vai con chi è meglio di te e fagli la spesa. Frequenta chi è migliore di te e, se puoi, impara da loro anche a costo di pagare per poterlo fare).
Chine pocu tena, caru ‘u tena (Chi ha poco, se lo tiene caro, con cura).
Aru paise di cicati beatu chine tena n’uacchiu (Nel paese dei ciechi, beato chi ha un solo occhio. Chi sa poco, in mezzo agli ignoranti sembra un sapiente. In ogni situazione sta meglio chi possiede di più).
Mazze e paneddre fanu e figlie belle, paneddre senza mazze fanu e figlie pazze (Botte e dolci fanno le figlie belle, dolci senza botte fanno le figlie pazze. Bisogna essere dolci e severi nell’educare i figli).
Ppe ra ciotia un ci nna’ medicina (Per la stupidità non esiste medicina. Non c’è rimedio).
Chine è natu quatratu, un po’ morire tunnu (Chi nasce quadrato non può morire tondo. Chi nasce in un modo non può morire in un altro. Il carattere non si cambia).
Megliu suli ca male accumpagnati (Meglio soli che male accompagnati).
Uacchiu ca ‘un vide, core ca ‘un dola (Occhio che non vede, cuore che non duole. Se alcune cose non si sanno si evita di soffrire).
‘A ragiune è di fissi (Si dice quando s’insiste troppo per aver ragione, per partito preso, senza cercare di capire le motivazioni dell’altro).
‘A meglia società è dispara e inferiore a unu (La migliore società è dispari e inferiore a uno. Il consiglio è non fare società).
‘A fatiga se chiama fata e a mie me feta (Lo dice chi non ama il lavoro).
‘A lingua vatta sempre dduve ‘u dente dola (La lingua batte dove il dente duole. Il pensiero va sempre a ciò che ci fa soffrire o ci preoccupa).
‘A matinata fa ra bona jurnata (La mattinata fa buona la giornata. Fare bene di mattina significa fare il più della giornata).
Ara squagliata da nive, se vidanu i strunzi (Quando la neve si scioglie appare tutto ciò che essa nascondeva. Alla fine i difetti vengono fuori).
A razza (intesa come buona razza, gente capace), tira capizza (La buona razza porta sempre sulla buona strada, i geni non mentono).
Aru paise d’a cuccagna chine menu fatiga cchiu magna (Nel paese dei balocchi chi meno lavora più mangia. La frase è ironica, in realtà, il senso è “se vuoi mangiare ti tocca lavorare”).
‘U suviarchiu rumpa ru cuvierchiu (L’eccesso rompe il coperchio, ovvero, il troppo stroppia).
A scusa de pirita sunu e surache (La scusa delle scoregge sono i fagioli).
Adura ca ‘u miadicu studia, ‘u malatu sinnè jutu (Nel frattempo che il medico studia, il paziente muore. Se non si agisce in modo celere, si rischia di arrivare tardi).
A furia de futtire se resta futtuti (A furia di fregare si resta fregati).
All’arrizzicu sta ru guadagnu (Per guadagnare, bisogna rischiare. Se non si rischia non si raggiungono gli obiettivi).
Aru penninu, ogne santu aiuta! (In discesa, ogni santo aiuta. A fare le cose facili ti aiutano tutti).
Ccu ra vucca case e palazzi, ccu ri fatti. capu de cazzi! (A parole case e palazzi, coi fatti nulla. C’è chi promette mari e monti e poi non mantiene le parole).
Chine fatiga mangia, chine un fatiga, mangia, viva e dorma (Chi lavora mangia, chi non lavora, mangia, beve e dorme. Il lavoro ti garantisce la sopravvivenza, la ricchezza, tutto).
Chine parra assai, caca viantu! (Chi parla tanto, defeca aria. Chi si vanta tanto, non combina nulla).
Chine te vo’ bene te fa chjangire, chine te vo’ male te fa ridire! (Chi ti vuole bene ti fa piangere, chi ti vuole male ti fa ridere. Chi ti vuole bene ti dice la verità, anche se scomoda e non ciò che ti fa piacere).
Chine tena a casa larga, raga spine (Chi ha una casa grande, ha tante spine. Una casa grande comporta responsabilità e problemi).
Ad ogni casa c’è ‘na cruce (In ogni casa c’è una croce. Non esiste casa senza problemi).
I panni luardi se lavanu ara casa (I panni sporchi si lavano in famiglia. Gli affari di casa si risolvono in famiglia e non si raccontano in giro).
Ara casa du latru, un s’arrubba (In casa del ladro non si ruba. È difficile imbrogliare una persona più esperta di noi).
Chine vo’ fricare ‘u vicinu, se curca priastu e se leva ru matinu (Chi vuole fregare il vicino deve coricarsi subito e svegliarsi presto).
Chine vo’ ‘ncripare ‘u nimicu u fa parrare e se sta citu! (Chi vuole far innervosire il nemico lo fa parlare e sta zitto, senza rispondere alle provocazioni).
Chine campa de ‘mmidia mora de raggia (Chi vive invidiando, muore arrabbiato).
Chine ccu priscari (guagliuni) se misca, ccu pulici se leva (Chi ha a che fare con bambini si ritrova pieno di pulci. Chi frequenta gente immatura prima o poi avrà problemi).
Cchine lassa ra via vecchia ppe ra nova, trivuli lassa e malanove trova (Chi lascia la via vecchia per la nuova, incontra sempre nuovi problemi).
Chine mangia sulu affucatu mora! (Chi mangia da solo, muore affogato. Il proverbio invita a non essere ingordi ma a condividere ciò che si ha).
Chine sta ccu ru zuappu se ‘mpara a zuappicare (Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, ovvero, chi frequenta persone negative rischia di far propri i loro difetti).
Chine tena faccia, abbusca mugliere (Chi ci mette la faccia, trova moglie. Senza provarci non si ottiene nulla).
Chi vo’ va, chine un vo’ manna (Chi vuole va, chi non vuole manda. Se vuoi una cosa, falla personalmente).
Cchiù scuru da menzannotte un po’ vinire (Più buio della mezzanotte non può fare. C’è sempre un risvolto positivo, anche quando si pensa che le cose possano soltanto precipitare).
Cose e notte, vrigogna e juarnu (Cose di notte, vergogna di giorno. Le cose fatte di notte, cioè di nascosto, sono quelle di cui bisogna vergognarsi).
Ccu l’amicu ‘u pattu, ccu ru parente ‘u cuntrattu (Con l’amico un patto, col parente il contratto. Fidati più di un amico che di un parente).
È megliu ‘na vota arrussicare, ca ciantu ‘ngialinire! (Meglio una volta arrossire che cento impallidire. Meglio reagire subito ad un torto, che covare nel cuore il risentimento. Se hai fatto qualcosa di male, confessalo subito).
I cunti se fanu ara ricota da’ fera! (I conti si fanno quando si ritorna dalla fiera, cioè alla fine).
E jestigne coglianu e ru gabbu mmisca! (Le bestemmie colpiscono, la derisione si ritorce su chi la prova).
Si a ‘mmidia fossa guaddrara, tutti l’avessanu (Se l’invidia fosse ernia, tutti ne soffrirebbero).
‘A zirra d’a sira, stipala ara matina (L’ira della sera conservala fino al mattino. Meglio non agire sotto l’effetto dell’ira).
Visita rara, tenela cara (La visita rara tienila cara. Tieni in buon conto chi cerca di non importunare sempre).
‘U pocu vasta e l’assai suverchia (Il poco basta, il troppo avanza. La moderazione nelle cose è importante).
‘U sule a chine vide, scarfa (Il sole riscalda chi vede. Se vuoi cogliere un’opportunità devi essere al posto giusto, al momento giusto).
Pane e mantu un grava tantu! (Pane e mantello non pesano tanto. Quando viaggi porta con te da mangiare e indumenti; sono sempre utili).
Sa cchiù ‘u pazzu ara casa sua, ca ‘u saviu ara casa e l’atri! (Ognuno conosce i problemi della propria casa).
Se dice ru piccatu e mai ‘u peccature! (Si dice il peccato e non il peccatore, ovvero, racconta il fatto ma non chi lo ha commesso).
Senza ‘u fissa, ‘u furbu un campa! (Senza gli ingenui, i furbi non vanno avanti).
Si un niasci viscannu, zu Peppe te fa ru vagnu! (Se non segnali la tua presenza, rischi di beccarti il piscio in testa. Era un consiglio quando ancora non c’erano i gabinetti in casa).
Dduve cce su i fatti, un servanu e parole (Laddove si fanno i fatti non servono le parole).
Fa cumu t’è statu fattu ca u d’è peccatu! (Fai come ti è stato fatto ché non è peccato. Se ti comporti con gli altri come loro fanno con te, nessuno potrà dirti nulla).
Male un fare, paura u d’avire! (Se non fai male non hai nulla da temere).
Matrimuni e viscuvati, du cialu su distinati! (Il destino decide matrimoni e vocazioni).
Megliu n’aiutu ca ciantu cunsigli (Meglio un aiuto che cento consigli).
E finestre du paise tenanu tutte e ricchie tise (Le finestre del paese hanno tutte le orecchie tese. In paese si sa tutto di tutti).
Fatte i fatti tui ca campi ciantu anni (Chi si fa gli affari propri vive cento anni, ovvero non si trova nei guai).
Gente e marina futte e camina (Quando incontri gente di mare, utilizzale se vuoi, ma liberatene appena puoi).
I parianti su cumu e scarpe, cchiu su stritti e cchiù te fanu male (I parenti sono come le scarpe, più sono stretti e più fanno male).
Infine, da questi proverbi traspare una società profondamente patriarcale e maschilista, in cui la donna era poco considerata e aveva un ruolo subordinato e da comprimaria.
Aru lustru da lumera tutte e fimmine su de ‘na manera (Al buio tutte le donne sono uguali).
Fimmina ca rida è cumu gaddrina ca canta, un cce tinire spiranza! (Non avere fiducia in una gallina che canta e una donna che ride).
Fimmine e sumere (asine), dduve su, fanu fere (Donne e asine fanno solo casino).
A chine puazzu a muglierma puazzu (Per ogni incazzatura ci va di mezzo la moglie. Sono sempre i più deboli a fare le spese dei torti subiti da altri).
Amu fattu ‘a matinata e ra figlia fimmina (È arrivata l’alba e la figlia è femmina. Abbiamo solo perso tempo perché la neonata è femmina).
Fimmina de gghiesa, diavula de casa (Occhio alla donna bigotta, perché è santa in chiesa e diavola fuori).
All’uaminu ‘a scuppetta, ara fimmina ‘a quazetta (All’uomo lo schioppo, alla donna il calzino. A ognuno il proprio lavoro e alla donna quelli di casa).
Figlia fimmina e vutte de vinu, dacce caminu (Figlia femmina e botte di vino prima puoi mandarle via, meglio è).
Seppure asse portante della famiglia
‘A casa senza fimmina è cumu ‘na scupa senza manicu (Una casa senza donna è come una scopa senza manico, inutilizzabile).
‘Na mamma mantena dece figli e dece figli un mantenanu ‘na mamma! (Una mamma mantiene dieci figli, ma dieci figli non sono capaci di mantenere una madre).
Con la preziosa collaborazione di A. Coltellaro
SAN FRANCESCO DI PAOLA A CONFLENTI
La località di Visora, nel 1500, era già famosa in tutto il circondario per essere teatro di eventi eccezionali che avevano destato l’attenzione del Vescovo di Martirano, ma a essa si lega anche una vicenda che vede coinvolto il grande taumaturgo San Francesco di Paola.
Si narra, infatti, che un giorno, il Santo passando da qua, giunto in prossimità del quadrivio di “Scagliuni”, da cui si diramavano molte vie, in orazione estatica e profonda, fissando una grande quercia che là sorgeva, esortò gli astanti a piantare in quel luogo tre croci, e profetizzò che lì sarebbe sorto a breve un gran tempio dedicato alla madre di Dio.
E così fu. I lavori di costruzione di quella che oggi è la Basilica Minore iniziarono nel 1580. Il 26 Agosto 1607 fu definitivamente consacrata.
A distanza di tanti secoli, tre croci non distanti dal Santuario, ancora oggi, ricordano l’evento appena descritto.
SORANGELA
Per quarant’anni un raggio di sole ha illuminato questo paese, ha scaldato il cuore dei nostri bambini, ha frenato l’esuberanza dei nostri ragazzi: quella luce si fa volto e ha un nome: Sorangela.
Di origine pugliese, proveniente da Ostuni (Brindisi), suor Angela Monopoli giungeva a Conflenti giovane, alla prima esperienza di apostolato, come “maestra di asilo”, dopo aver preso i voti.
Qui, all’ombra del Santuario della Madonna della Quercia di cui, con le consorelle del Cottolengo, era attenta custode, con pazienza e umiltà, col viso illuminato da un rassicurante sorriso, ha accolto, preso per mano, coccolato, sgridato, stretto al cuore, anno dopo anno tutti i bambini di Conflenti dai tre ai sei anni, per decenni!
Il magistero cristiano della gentile Sorangela non si limitava però solo alla cura dei bimbi, che piangenti si distaccavano dalle mamme per temprarsi alle difficoltà del vivere nell’asilo del Santuario.
Lei era una guida spirituale e morale nelle successive fasi della crescita: da giovani si tornava a confidarsi da lei, da sposati ancora si faceva riferimento ai suoi saggi consigli per risolvere i problemi della vita di tutti i giorni.
Non aveva generato figli, ma era mamma di generazioni e generazioni! Suora piena di vitalità, gioiosa. Chi non ricorda gli spettacoli all’aperto che mobilitavano tutta la popolazione per la “festa della mamma”?
Dal palco allestito sul sagrato, fanciulli, bambini, ragazzi si alternavano in spettacoli teatrali magistralmente preparati dalla brava suora, tenace instancabile regista delle spontanee esibizioni di piccoli attori, regalando ai genitori, amici, conoscenti un’ora di divertimento: si riportavano sulla scena momenti di vita, valori, costumi, usanze.
Sorangela la saggia, la mamma delle mamme, per decenni è stata considerata una conflentese. Forse i più giovani neanche sapevano che non era nata qui, ma che nel 1951 era venuta da lontano! Sorangela era della comunità, persino aveva contaminato la sua originale inflessione col nostro dialetto.
Lei ha lasciato un’orma indelebile nel nostro paese. Il suo passaggio ha segnato generazioni, il seme dei suoi insegnamenti ha messo radici nel cuore di figli e genitori per circa mezzo secolo. Col volto sereno e fare operoso, la mite suor Angela ha segnato un’epoca. Era tra noi negli anni duri e faticosi della ricostruzione, era qui quando i conflentesi emigravano in terre lontane, era sempre qui a registrare la vita dei compaesani e a piangere per le sventure, con noi nel bene e nel male, sempre conflentese, con noi a sorridere e piangere. E ora che è volata in cielo, tra gli angeli come lei, ha desiderato che la sua salma restasse nel nostro cimitero, affetto tra i nostri affetti. A ricordo sempre presente della nostra unica, insostituibile sorella. Sorangela è di Conflenti e resterà per sempre nel cuore dei conflentesi.
Giuliana Paola Carnovale
Via Butera, 9
88040 Conflenti CZ
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