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Il terremoto del 1905 aveva colpito gravemente Martirano producendo lutti e rovine, tanto che era stata annunciata una visita del Re sui luoghi del disastro.
Tutti i collegamenti per Martirano erano però interrotti, così, egli arrivò con un’autovettura fino a Conflenti, per poi proseguire da là verso i luoghi colpiti dal tragico evento.

A Santa Maria, in piazza vicino al Santuario, si radunò una folla di curiosi per vederlo col suo seguito. Il Re fece una piccola sosta e gli vennero offerti in dono molti prodotti locali, il monarca apprezzò in modo particolare il pane di farina di castagna che definì “pane dolce al sapore di miele”.
Intanto in fretta, era stata bonificata alla meno peggio la strada di collegamento da Scagliuni per consentire il passaggio verso Martirano.
Il proseguimento era possibile però solo a dorso di asino e per il Re erano stati impegnati una mula, una bella sella e Cicciu, il palafreniere. Tutto messo a disposizione da Don Rodolfo Isabella, notabile dell’epoca, che poi conservò per lungo tempo la sella.

Cicciu conduceva la cavalcatura per la cavezza e, consapevole dell’incarico ricevuto, stava accorto ad evitare all’angusto personaggio ogni difficoltà. Da un po’ di tempo però vedeva che questi, quando il sentiero diventava più ripido, allargava le gambe e spingeva coi piedi nelle staffe, come se cavalcasse un cavallo. Allora gli sovvenne che la mula era ombrosa e che se avesse avuto qualche scatto avrebbe disarcionato il trasportato con ogni intuibile conseguenza. Decise perciò di informarlo immediatamente: O Rre, strinci ‘e cosce c’a mula è vizzarra e te jetta (Re, stringi le gambe perché la mula è ombrosa e ti disarciona) e quello, sentendosi interpellato, senza capire il senso delle parole rispose: “Ma cosa dice brav’uomo, cosa dice?”.


Anche Cicciu non aveva capito che il Re non avesse capito. D’altra parte, come poteva pensare che il Re non avesse inteso quando lui era stato così chiaro? Allora lasciò correre per non importunare.
A breve, però, una certa tensione trasmessagli dalla cavezza lo portò a rinnovare l’invito: O Re, taiu dittu mu strinci e cosce ca a mula è vizzarra e te jetta.
L’interpellato ancora non volle capire e rispose col suo: ”Ma cosa dice brav’uomo, cosa dice mai?”, e continuò ad allargare le gambe e a spingere nelle staffe, al che spontaneo ed immediato il commento del premuroso palafreniere: Tu tinne futti? E futtatinne, ca si cadi ta squatri tu ‘a crozza (Tu te ne infischi? Ed infischiatene, tanto se cadi la testa te la rompi tu”).
E qui si chiuse il conversare tra il sovrano e suddito.

Di Francesco Stranges