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La storia sofferta di Gaetano è probabilmente la storia di tanti emigrati conflentesi e, per questo, commovente e meritevole di essere raccontata.

La grave crisi economica che attraversava l’Italia nell’immediato Dopoguerra non risparmiava certo il nostro piccolo paesino, dove la situazione era davvero molto difficile con analfabetismo, disoccupazione e povertà dilaganti.

“Le Americhe” e i famosi viaggi della speranza verso nuove terre che promettevano benessere e ricchezza si prospettavano come l’unica possibilità di sfuggire ad un destino segnato.

Anche la famiglia di Gaetano stava attraversando un momento molto difficile. Viveva di sacrifici e stenti. E fu così che i genitori decisero di partire per l’Argentina alla ricerca di una vita migliore. Partì dapprima il padre con uno dei suoi fratelli e in seguito li raggiunsero Gaetano, insieme alla madre e gli altri due fratelli. Gaetano lascia Conflenti con il cuore a pezzi, non riesce a salutare gli amici, è un dolore troppo forte! 

Tuttavia, parte accompagnato dalla speranza di arrivare in Argentina, avere successo e poi tornare da vincitore nel suo amato Paese. Affronta il lungo viaggio in balia dell’Oceano intrattenendo i passeggeri della nave con musiche popolari e canti conflentesi. Era un modo per continuare a sentirsi vicino alla sua amata Conflenti. 

Arriva in Argentina e inizia la sua nuova vita ma non è la vita che aveva sperato e sognato. Sposa una ragazza del luogo e trova lavoro come spazzino.

Amato e rispettato da tutti, conduce una vita dignitosa ma con il pensiero fisso di tornare almeno una volta a Conflenti. La sua condizione economica non è però tale da permettergli di coronare il suo sogno e tornare in paese.

Per sua fortuna arriva a Buenos Aires Salvatore Buonocore, accompagnato dall’allora sindaco di Conflenti Giovanni Paola. Si incontrano, chiacchierano e Gaetano racconta la sua storia e il suo sogno. Tornato a Conflenti Salvatore, particolarmente sensibile al tema dei nostri emigrati, non dimentica quell’incontro.

Dopo qualche mese si reca in un’agenzia di viaggi e, facendosi carico di tutte le spese, anche grazie al supporto di Don Adamo, compra un biglietto aereo per l’Italia da regalare a Gaetano per permettergli di realizzare il suo sogno.

Il ritorno nell’amata Conflenti

Alla veneranda età di settant’anni, Gaetano finalmente torna a Conflenti

Il suo ritorno è indimenticabile, tutta la comunità è coinvolta dall’emozione per il ritorno di un suo figlio. Gaetano scoppia di felicità. Piange come un bambino e non riesce a trattenersi. Cammina per strada suonando i campanelli e urlando: sono Gaetano, sono tornato! Poi va nella sua vecchia casa e cerca un buco nella porta che dava sul giardino. 

Lo aveva fatto con il fratello Alfredo quando erano piccoli, ed era ancora lì! Comincia a ricordare le giornate estive trascorse correndo sui prati fioriti catturando grilli e inseguendo farfalle e poi andando sudati a bere alle sorgenti di acqua fresca. Quante emozioni, quanti ricordi!

Gaetano confida di aver vissuto una vita sospesa tra due mondi. 

Diceva sempre: “Ho vissuto due vite parallele. Di giorno vivevo e lavoravo a Lanus ma la notte, tutte le notti, in questi cinquant’anni sono ritornato nel mio amato paese. Camminavo lungo le strade, cercavo di ricordare i negozi, i bar e la gente che vi avevo lasciato. Non volevo dimenticare niente. Tutto doveva rimanere nitido nella mia mente. La terra che mi ha dato da mangiare è l’Argentina, la rispetto e gli sono grato ma la terra che mi ha dato la vita è l’Italia e io non l’ho mai dimenticata“.

I luoghi del cuore sono i luoghi dove abbiamo vissuto le emozioni che hanno plasmato la nostra vita. Emozioni che non potranno mai essere dimenticate. Sono luoghi speciali, intimi e profondi che soprattutto chi è all’estero ne custodisce gelosamente la memoria e Gaetano ne è la conferma.

In un mondo dominato dagli uomini e caratterizzato dalla rassegnazione femminile, Donna Peppina si distinse per coraggio e per capacità che all’epoca venivano considerate prerogative esclusivamente maschili.
Nata a Decollatura nel 1901, in una famiglia di medici illustri, era venuta a Conflenti come sposa di un ricco proprietario terriero: il cav.  Michelino Isabella (Podestà’ di Conflenti dal 1926 al 1930).

Il marito però, morto per un’operazione mal riuscita, la lasciò ben presto vedova e con due figli da allevare.  Altre donne del suo livello sociale, secondo le regole non scritte del tempo, si sarebbero chiuse in casa e avrebbero affidato ad un fattore la gestione delle proprie terre.  Questo non fu il suo caso.
Si rimboccò le maniche e prese le redini della casa governandola con mano ferma e sicura. Prese a seguire personalmente quasi tutti i lavori dei campi: trebbiatura, mietitura ecc. Con grande energia cominciò a spostarsi a piedi o a dorso di un cavallo, seguita dal fido Guido, in tutte le sue proprietà, disseminate nei quattro angoli del paese.
I coloni se la vedevano piombare nei loro terreni in qualsiasi ora del giorno, anche all’alba, e discutere con competenza di lavori e prodotti.  Sapeva far valere i propri diritti, ma era pronta ad aiutare in caso di bisogno.
Accettò la presenza di un figlio gravemente malato, curandolo con amore e sopportandolo con rassegnazione quando creava dei problemi.  Non risparmiò mai soldi e fatica, portandolo nei più famosi ospedali d’Italia, non rinunciando mai alla speranza di alleviargli le sofferenze. 

Preferì fare a meno dell’aiuto che poteva darle l’altro figlio, Giovanni, mandandolo in collegio e invitandolo a occuparsi solo dei propri studi.
Benché i suoi problemi fossero tanti e le sue giornate piene, non lesinò l’impegno in altri ambiti e non rinunciò a dare l’esempio occupandosi di opere sociali e umanitarie: fu presidente dell’O.M.N.I. (Opera Nazionale Maternità’ Infanzia).
Negli anni immediatamente successivi al suo arrivo supportò, purtroppo senza successo, la battaglia portata avanti da Rodolfo Isabella per far passare la ferrovia da Conflenti.
In quegli anni la Calabro-Lucane, infatti, doveva eseguire il tracciato della linea ferroviaria, che da Cosenza portava a Catanzaro. Arrivati a Scigliano si intravedeva la concreta possibilità di far passare la linea per Motta S.Lucia e Conflenti, e quindi proseguire per Decollatura e Catanzaro.
Il dottor Rodolfo Isabella si adoperò con tutte le sue forze per ottenerla, ma si scontrò con la fortissima opposizione dei suoi stessi parenti, i Montoro, che erano contrari al passaggio della ferrovia dalle loro terre e ne impedirono il transito dal nostro territorio.

Ma Donna Peppina va ricordata anche per un’altra grande battaglia.
La giovane vedova diede avvio con grande determinazione, insieme a Peppe Calabria, autista storico del postalino, Rosina Stranges, Alessandro Paola e don Riccardo, alla ricostruzione della chiesetta della Querciola, che era rimasta incompiuta dal secolo precedente.
L’opera, anche grazie alle numerose offerte dei fedeli, venne portata a termine, e se oggi possiamo ammirare sulla collinetta di Serra Campanara la splendida chiesetta, tanto lo dobbiamo alla grande ostinazione dell’indimenticata Donna Peppina.

 

Una vera “madre coraggio” conflentese che è giusto ricordare.

                                                                                  

                                              di  A. Coltellaro

Quello del quadararu è uno di quei lavori ormai scomparsi che facilmente ci riportano alla mente il mondo degli antichi mestieri. Mestieri che col tempo sono scomparsi ma che ci ricordano un passato fatto di grandi sacrifici eppure carico di valori e speranze.

U quadararu

U quadararu era sempre unto di nero, come il suo viso e i suoi vestiti. Anche la forgia solitamente era un piccolo locale nero, pieno di fuliggine e maleodorante di acido muriatico. Ma lui era un’artista! Un’artista nel riparare gli oggetti di rame o a crearne dei nuovi. Se una quadara si sfondava o si ammaccava in più punti per l’usura, lui la rimetteva a nuovo; se era rotta e ci voleva una pezza, che ricavava da una vecchia pentola non più utilizzata, l’applicava esternamente con dei chiodini di rame. Invece, se doveva mettere a nuovo l’interno della pentola, rendeva prima liscia, lucente e uniforme la superficie e poi stendeva dello stagno strofinando con una matassa di canapa fino a quando il lavoro non era eseguito alla perfezione.

Gigino Pasqua

U quadararu a Conflenti

Nel nostro paese, in cui è molto viva la tradizione dei soprannomi, è ancora possibile rinvenire nomignoli legati proprio a questa professione. Uno dei più rinomati quadarari era Giosuè Pasqua detto Franciscu u quadararu. Originario di Grimaldi, arrivò a Conflenti dove svolse dapprima l’attività di venditore di rame e successivamente si dedicò alla professione de quadararu. La sua bottega si trovava nei pressi del bar centrale. Era composta da due locali, in uno vendeva le sue creazioni e nell’altro effettuava i lavori.
Nella bottega, con le mani incallite, insegnò questo mestiere a due dei suoi figli: Lissandro e Gigino.
Insegnò loro a riparare e a creare caldaie, pentole, tegami, bracieri e tutto l’occorrente per la cucina. Con una cesoia ritagliava le lamiere, le piegava, le modellava sul fuoco con il solo uso del martello e, infine, le saldava. Negli ultimi tempi, la loro maestria era molto ricercata per la costruzione di recipienti per l’olio: le giarre!

Alessandro Pasqua

Era Mastru Franciscu ad organizzare il lavoro e i figli lo seguivano in tutto. Si spostavano di paese in paese offrendo i loro “servigi”; si recavano a piedi nelle fiere del circondario per vendere i loro prodotti. Una vita difficile, fatta di sacrifici e di duro lavoro che li teneva lontani da casa e dalla famiglia ma che permetteva loro di avere il necessario per vivere una vita dignitosa. Alla sua morte, i due fratelli continuarono a lavorare insieme per po’ di tempo ma poi decisero di dividersi. Lissandro continuò a lavorare nella bottega del padre mentre Gigino ne aprì una nuova in via Marconi, in un locale di Arnoldo il macellaio, e vi rimase fino a fine anni ’70. Purtroppo, nessuno dei nipoti, sia per l’emigrazione sia per l’avvento della tecnologia, ha continuato a svolgere questo mestiere e a mantenere viva la tradizione.

I quadarari ambulanti

Dopo Giginu e Lissandru, a Conflenti iniziarono ad arrivare i quadarari ambulanti. Richiamavano l’attenzione delle donne urlando a squarciagola: “U quadaraaru! È arrivatu u quadararu!” Un urlo inconfondibile risuonava per le vie del paese, al quale le donne si precipitavano sull’uscio di casa e consegnavano nelle loro mani pentole, caldaie e altri utensili in rame che avevano bisogno di essere riparati. Questi artigiani avevano però la fama di essere abbastanza sfortunati perché tutte le volte che arrivavano pioveva o nevicava e il loro lavoro, sempre all’aperto, diventava più faticoso. Ecco da dove arriva il modo di dire “tiani a fhurtuna du quadararu” volendo così indicare una persona sfortunata. A lavoro finito, si spostavano in un’altra via nella speranza di portare a casa, a fine giornata, un cospicuo guadagno.

Il portone del Parroco!. Ma d’altra parte un salotto di quel tipo meritava una piazza, e così in mancanza di una vera qualcuno se l’è inventata.

E quello spazio angusto, che era venuto fuori dal piccolo incrocio, lo abbiamo utilizzato come piazza, anche a costo di stringerci a mucchio in alcune occasioni come i comizi, che stranamente con tanti posti migliori, si tenevano proprio là.
Poi, fortunatamente, qualcuno ha pensato bene che era arrivato il momento di costruirne una vera, là vicino, e ci ha regalato Piazza Pontano. Dicevamo del portone del parroco, luogo di ritrovo e di osservazione: ti fermavi un poco e l’intero paese ti sfilava davanti. D’altra parte non potevi passare senza fermarti, era una sosta obbligata, come ad una barriera doganale, un tributo da pagare per il tuo essere del paese: più eri del paese e più tempo avevi speso al portone.

U purtune d’u paracu!

Da adolescenti tutti a stringerci a strinci vutte per entrarci tutti assieme, fino a quando non si superava il limite degli schiamazzi e vi poneva fine, silenzioso ed improvviso, dal finestrino sovrastante il getto d’acqua della za monaca.

Il limite non era dato saperlo, dipendeva dall’ora e dalla pazienza della za monaca, dall’intensità degli scossoni inflitti al portone.
Portone! Quante storie hanno ascoltato i tuoi gradini; quante pene d’amore riversate nell’orecchio confidente dell’amico; quante angosce trasferite all’altro che ti si avvicinava sempre più man mano che il racconto si faceva più struggente.
Quante storie hai ricevuto senza mai tradirle, quanti ricordi incorniciati dall’arco del tuo portale ci siamo portati dietro nel viaggio della nostra vita sotto i cieli più lontani: quante volte ti abbiamo evocato nella domanda di rito rivolta al compaesano incontrato per caso in giro per il mondo: e cchi se dice a ru purtune d’u paracu?.

 

 

               Di Franco Stranges

Tra gli anni ’70 e ’80 a Conflenti c’era un grande fermento culturale e politico. Allora il piccolo centro del Reventivo contava oltre tremila abitanti. I giovani avevano sete di conoscenza e di voglia di fare. In questo contesto nasce “Radio Grandangolare”. Una radio vera e propria che trasmetteva sulle frequenze 99 e 106 MHz ed era ascoltata perfino in Sila.

La nascita di Radio Grandangolare

Nell’ambito del centro di cultura diretto da Pasquale Paola si pensò di creare una radio libera già sul finire degli anni ‘70. Esisteva un periodico con il nome “Grandangolare” al quale successivamente fu associata anche la radio in Fm che trasmetteva 24 ore su 24. Venne regolarmente istituita e furono comprate tutte le attrezzature necessarie. Così le tristi sere d’inverno a Conflenti divennero più briose. Chi ha vissuto quegli anni ha forte nostalgia di quell’esperienza di unione ma anche formativa. Grazie alla radio Conflenti iniziò ad essere conosciuto in tutto il territorio cosentino. Anche se fu attiva solo per una decina di anni il suo ricordo è ancora oggi indelebile.

Era un periodo politico abbastanza caldo e l’obiettivo della radio fu anche quello di unire i vari gruppi oltre a dare la possibilità a tanti ragazzi di poter parlare pubblicamente e quindi di migliorarsi dal punto di visto dialettico ed espressivo. Esisteva già anche il Centro di cultura popolare (ora Centro di educazione permanente): un laboratorio di diverse attività sportive e culturali. Il tutto sotto il nome di “Grandangolare”. Oltre una ventina i giovani che vennero coinvolti dal progetto. Si trattava di una radio importante e veniva perfino trasmessa la partita del Catanzaro che allora era in serie A. Il livello culturale a Conflenti era notevole e studiava già una percentuale molto alta di giovani.

I programmi e le dediche.

“Radio Grandangolare che trasmette da Conflenti è la radio… la super radio… è la radio più allegra che c’è”. Questa la sigla che da Conflenti partiva per arrivare fino in Sila. Copriva circa 80, 90 paesi in tutta la Calabria. La radio trasmetteva anche di notte con il mitico programma “L’uomo della notte”. Poi c’era “Musica magica”, “Mezzogiorno di fuoco” e, ancora, “La battaglia navale”. Molto in voga e apprezzato anche il programma “Exstensive”.

La sezione dedicata alla musica a richiesta, domenica mattina alle 8 c’era infatti anche un programma di cantautori. Tantissime le chiamate in diretta.C’è chi ricorda anche di tanti amori sbocciati grazie alla radio e alle sue famose dediche. Chi ha vissuto quegli anni ricorda con nostalgia anche di bigliettini lasciati in forma anonima sotto il portone della sede. Una pagina culturale che merita di essere ricordata e tramandata.

Sicuramente a ognuno di voi, passeggiando su e giù per Via Garibaldi, la strada più importante di Conflenti, è capitato di chiedersi come era questa strada un tempo e da chi era abitata.
A noi, lo sapete, piace raccontare il passato, recuperare la memoria storica dei luoghi e allora ammirando le stupende foto storiche del maestro Umberto Stranges e guidati dal racconto emozionante del professor Corrado Roperti, abbiamo fatto un fantastico viaggio a ritroso nel tempo, portandoci su via Garibaldi degli anni quaranta del secolo scorso.

A quel tempo tutto era molto diverso da come ci appare oggi.
Le case erano tutte prive di intonaco (che bello!), rivestite in pietra civata e piene di buche pontaie, quasi tutte più basse di un piano, aggiunto poi generosamente col tempo.
Il piano stradale era completamente diverso, non esistevano né cunette, né marciapiedi, l’inclinazione del piano stradale era esattamente al contrario, con l’acqua che defluiva verso il basso, al centro della strada.

Il selciato era costituito da grosse pietre abbastanza regolari e piatte, portate faticosamente coi muli dal fiume Salso. Al centro c’erano due strisce quasi continue, a distanza di circa un metro l’una dall’altra, formate mettendo in fila le caratteristiche basulate, ossia, pietre vulcaniche di forma rettangolare.
Le basulate erano state posizionate in quel modo per creare un percorso obbligato più agevole per il transito dei carri e delle poche auto allora esistenti.

Purtroppo però avevano una controindicazione molto sconveniente perché rendevano molto complicato il passaggio di asini e muli che, soprattutto quando erano carichi, non riuscivano quasi a restare in piedi scivolando di continuo. Per eliminare questo inconveniente il Podestà di allora provvide a fare creare delle scanalature su ognuna di esse da un “mastro locale”.Ai cigli della strada, poi, erano distribuiti alcuni caratteristici blocchi di pietra di forma cilindrica, cavati dai mastri scalpellini del basso Savuto.
Queste grosse pietre non erano altro che una sorta di stazione di sosta per lo scarico della merce dalle ceste dei muli, in pratica mentre si caricava o scaricava una delle ceste vi si poggiava l’altra, così da mantenere l’equilibrio e alleggerire l’animale.

Di queste pietre oggi ne rimane una sola, nei pressi di Palazzo Montoro.
Ai gerarchi fascisti del tempo piaceva dire che questo blocco era stato portato direttamente dall’Africa durante la campagna di Etiopia.
Sui muri di alcune case poi erano attaccati degli anelli di ferro che servivano per legare gli animali da soma, di questi maniglioni ne rimangono ancora alcuni su Palazzo Folino.
Altra curiosità che vogliamo raccontarvi riguarda le due mensole di marmo bianco ancora visibili su Palazzo Montoro, che erano state messe in quel periodo accanto all’entrata della Casa del Fascio e reggevano simboli del regime.
A quel tempo ovviamente non esisteva Piazza Pontano e la curva di fronte a Palazzo Isabella era molto stretta e delimitata da un piccolo muretto, che si interrompeva alla fine della curva perché c’era una fila di piccole case che portava alla cava del “fiego”.

Ma chi abitava e cosa c’era sulla strada più importante del paese in quegli anni?

Su via Garibaldi vivevano nei loro bei palazzi nobiliari le famiglie più ricche e influenti dell’epoca: la famiglia Montoro del medico del paese, don Vittorio, la famiglia del mitico Comandante Stranges, Ammiraglio della Regia Marina, la famiglia Isabella del Podestà di quel tempo, e ancora le famiglie Pontano e Roperti dei due influenti farmacisti del paese e le famiglie Calabria, Talarico, tutti ricchi possidenti terrieri. E ancora la casa di Don Stefano, il prete esorcista col famoso purtune du paracu, e poi scendendo le case dei “Dduoghi’ discendenti dei nobili Vescio e ancora sotto in zona San Giuanni i palazzi nobiliari più antichi di Conflenti. 

Ma via Garibaldi era anche un pullulare di gente e su di essa si concentravano gli uffici più importanti e le attività che hanno fatto la storia del paese. Su di esso c’erano la Caserma dei Carabinieri dell’indimenticato maresciallo Talia, la casa del Notaio Mastroianni e dei suoi figli, avv. Aldo e l’altro medico Don Lino, l’Esattoria e soprattutto il Municipio con sotto la molto temuta Casa del Fascio, del potente segretario Giuanni ‘e Giuliu.

Per quanto riguarda le attività è doveroso ricordare il primo bar del paese, quello di Rinuccio (attuale bar Centrale), il mitico salone di mastru Pulitano barbiere specializzato in sfumatura alla tedesca e munnareddre e, in una piccola traversa, la locanda di Bertu e Prigatoriu, unico albergo del paese e ancora la sartoria di Peppino Villella, conosciuto come Peppino ‘e Ferrante.

Il viaggio nel tempo finisce qua, ci auguriamo che sia stato divertente.

 

Di Corrado Roperti

Nel febbraio 1806 le truppe francesi guidate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, invasero per la seconda volta l’Italia Meridionale. Il Re di Napoli Federico IV e la corte fuggirono in Sicilia. 

In poco tempo tutta la Calabria fu occupata dai francesi guidati dal generale Reynier e dappertutto si diffuse il terrore in quanto gli invasori si lasciarono andare ad azioni intimidatorie e a veri e propri saccheggi. Particolarmente pesante e insostenibile si era fatta la situazione nei paesi del Reventino dove le truppe dei francesi imposero ogni genere di vessazioni e abusi.

Conflenti, bisogna ricordarlo, era il paese di Panedigrano, uno dei briganti più temuti dai Francesi, che in questa situazione aveva scortato i principi reali in Sicilia.
A seguito di uno dei tanti episodi di spregevole brutalità da parte dei francesi, a Soveria scoppiò una rivolta, che immediatamente si diffuse nei paesi vicini, soprattutto Conflenti e Martirano ma, poi, anche a Gizzeria e Sambiase.
La reazione francese fu brutale, pesantissima, in particolare a Conflenti e Soveria, focolai della rivolta, che vennero messi a ferro e fuoco. Nel nostro paese i transalpini riuscirono a individuare e catturare perfino un giovanissimo figlio di Panedigrano, che da lì a poco venne giustiziato a Cosenza.
Malgrado la brutale repressione e nonostante le terribili punizioni individuali inflitte ai rivoltosi, molti insorti, nascosti negli inaccessibili rifugi di montagna, non si erano per nulla rassegnati alla sconfitta.
Il focolaio della rivolta covava e dopo un paio di mesi, un manipolo di seguaci di Panedigrano, comandato dal figlio Gennaro, assaltò ad Acquabona un drappello francese guidato in qualità di ufficiale dal famoso Paul Louis Courier, scrittore e studioso autore di varie opere di notevole ingegno. 

Courier e i suoi, furono spogliati di ogni cosa e condotti nudi dopo un lungo cammino, in un nascondiglio nei pressi di Conflenti. Qui i malcapitati divennero oggetto di scherno e di sevizie per alcuni giorni.
Intanto a Conflenti, di ritorno dalla Sicilia, era rientrato Panedigrano per effettuare un nuovo reclutamento di massa contro i francesi.
La sua prima azione, malgrado fosse stato messo al corrente della cattura del figlio, fu una sorprendente lezione di magnanimità e generosità.
Quando dal figlio Gennaro gli furono messi davanti i francesi catturati e destinati alla fucilazione, Panedigrano, dimostrando una grande sensibilità, colpito dalla grande dignità che mostrava Courier a differenza dei suoi compagni che imploravano pietà, salvò da morte sicura l’ufficiale francese.
Panedigrano, infatti, persuase i suoi compagni a lasciare a lui la cura di seviziare il prigioniero perché, disse, voleva vendicarsi della cattura del figlio.
Lo fece, quindi, accompagnare in paese e lo rinchiuse in un sotterraneo della sua casa, che era vicino al Piro, e più precisamente quella attualmente occupata dalla nostra cara Donna Franca.

Qui durante la notte, conversò a lungo con lo scrittore e poi, certamente per rispetto dell’uomo di cultura, che si era dichiarato solo spettatore e cronista di quella guerra, decise di lasciarlo libero e farlo fuggire, dandogli pure una scorta, affinché potesse raggiungere, attraverso le scorciatoie, Nicastro.
Gli spiegò che aveva mostrato accanimento verso di lui solo per poterlo salvare, quindi gli aprì le porte e lo fece fuggire.
L’episodio è stato in seguito ricordato dallo stesso Courier nelle sue memorie e dallo storico Sacchinelli nel libro sulla vita del Cardinale Ruffo.

 

                          Di V. Villella

Un articolo scritto al passato ma attualissimo, nulla è cambiato.

Al paese di svaghi non ce ne erano tanti.  Le donne passavano giornate intere sugli scalini di casa a ricamare e fare pettegolezzi, gli uomini passeggiavano, parlavano di donne e di sport e giocavano a carte.
Era questo un gioco che conferiva prestigio nel piccolo panorama paesano.
Alcuni giocatori sono diventati quasi una leggenda. A carte giocavano tutti, piccoli e grandi.

Come in tutti gli sport, c’era una scala di valori in cima alla quale c’erano i campioni venerati e rispettati.  Con loro era difficile giocare. Si concedevano poco e non al primo venuto; un onore riservato solo a chi, nel tempo, vincendo più partite, aveva dimostrato di saperci fare.  La partita col campione rappresentava la definitiva consacrazione.

Si giocava a scopa, briscola, tressette e calabrisella. I primi erano giochi che conoscevano tutti gli ultimi riguardavano solo la gente più impegnata.
Si giocava in tutte le ore del giorno, ma le ore del tramonto erano le più indicate in quanto forse il caldo toglieva concentrazione.

Quasi sempre il gioco cominciava in sordina, come di consuetudine  la proposta di iniziare non veniva mai accettata al primo invito ma solo dopo un po’ di cerimonia.
Là inizio era sempre senza spettatori.  Poi qualcuno si avvicinava con indifferenza e accostava una sedia, subito dopo un altro e poi un terzo e un quarto sino a quando intorno si formava un capannello e il gioco diventava sempre più serio.
I giocatori si sentivano osservati, giudicati ed ogni mossa doveva essere attentamente meditata.  Più gente c’era intorno e più lentamente procedeva il gioco.  Le pause diventavano sempre più lunghe.  Mai una mossa affrettata.  La platea richiedeva il massimo rispetto.  Il coinvolgimento diventava generale e la partita vissuta con grande partecipazione.  Si gioca in otto o dieci, la mimica facciale acquista una importanza rilevante.

Il giocatore osserva, riflette e con la coda dell’occhio si guarda intorno.  La sua mano tocca una carta poi un’altra, la sceglie, la solleva, si prepara a giocarla; ma poi ci ripensa e la riporta indietro e se l’amico in platea ha la faccia imbronciata, la mossa è forse avventata.
Altra pausa di riflessione.  Il giocatore finge indifferenza e manifesta sicurezza, perché sa che questa è ritenuta una dote fondamentale.
Si riparte con decisione, la mano si sposta su un’altra carta, si cerca l’impercettibile cenno di assenso dell’amico e la giocata è fatta.
Intorno c’è chi biasima e chi loda.  Da una mossa dipende il prestigio di un giocatore.
Le partite durano una eternità e mai finiscono con la fine del gioco.
Finito il “gioco giocato” comincia il processo, le interminabili discussioni del dopo partita, e anche qua bisogna essere molto abili e mostrarsi sempre sicuri.
E come sempre la vittoria ha tanti padri, ma la sconfitta è figlia di uno solo.  E per quel solo è, una giornata triste, pieno di sfottò, un giorno nero da dimenticare.

 

          Di A. Coltellaro

Don Stefano Stranges fu per moltissimi anni parroco del paese, nonché Vicario foraneo della Diocesi. La moralità di questo ministro di Dio era ineccepibile, la sua rettitudine inimitabile e la sua fede nel sacerdozio incrollabile.

Per queste sue alte qualità morali fu anche un “eroico” esorcista, cioè uno dei pochissimi sacerdoti cui la chiesa, in casi eccezionali, concede questa particolare licenza e il duro compito di purificare le anime dal ”Maligno”, ingaggiando con lui lotte terribili.

Ci fu un periodo in cui a Conflenti portavano da tutta la Calabria le persone indemoniate, le cosiddette “spiritate”.
Il Santuario era il luogo sacro in cui venivano liberate e Don Stefano svolgeva la sua missione d’esorcista.
Per noi ragazzi quando arrivavano gli “spiritati” era una festa; per Don Stefano era l’inizio di un calvario. Le bestemmie, le parolacce, gli sputi che l’indemoniato rivolgeva al sacerdote erano della peggiore volgarità. Ma non appena l’esorcista indossava la stola viola e impugnava la voce di Cristo diventava invincibile.  

Fra i tanti voglio ricordare un episodio.
Era un giorno freddo, ma luminoso di gennaio. A Santa Maria si fermò la macchina di Carmine Calipari. Ne discese una ragazza, quasi ventenne, coi suoi familiari.
In paese si sparse subito la voce che era arrivata una “spirdata”.
Don Stefano ne fu informato e si avviò verso il Santuario. Nel frattempo la piazza si era riempita di persone, come sempre accadeva in queste circostanze.
La ragazza si avviò spontaneamente verso la chiesa, ma giunta sulla porta del Santuario di colpo si fermò e a nulla servivano le spinte che le davano gli uomini accorsi dalla cantina di “Peppe a Marca”: la donna dimostrava di avere una forza sovrumana.
La sua voce non era quella di una giovane ragazza, ma quella aspra e forte di un uomo delle caverne, sentirla parlare era una cosa terrificante.
Finalmente Don Stefano sopraggiunse, alla vista del sacerdote la ragazza divenne furibonda e le ingiurie e invettive contro l’esorcista aumentarono. 

La ragazza perse le forze e cadde di colpo, sbattendo la fronte a terra.
Ci si aspettava di vedere un fiume di sangue invece dopo un poco, fra la sorpresa generale, la ragazza alzò la testa, aprì gli occhi e ignara di tutto chiese dove si trovasse.
Ritrovò la voce naturale di ragazza e, informata dell’accaduto ringraziò la Madonna, baciò la mano di Don Stefano e fece ritorno al suo paese.
Don Stefano invece, seppur stremato, si fermò ancora in chiesa per pregare per quella povera anima che aveva conosciuto il tormento e la sofferenza del male.

 

 

Corrado Roperti da Novecento Conflentese

Il Bar Centrale e Piazza Pontano, ormai indissolubilmente legati, rappresentano il cuore pulsante del paese, il punto di ritrovo spontaneo di tutti.
Luoghi di incontro nelle sere d’estate, crocevia di lunghe chiacchierate, tornei, dibattiti politici e tanto altro, per decenni le vicende di Conflenti hanno calcato questi spazi comuni al centro del paese.

Eppure fino a metà degli anni Ottanta, la piazza, poi intitolata a Tommaso Pontano, conflentese e direttore del reparto di malattie infettive dello Spallanzani di Roma oltre che medico di Mussolini, non esisteva proprio, esisteva solo la strada delimitata da un muretto e sotto c’era un canale per la raccolta delle acque.

 Poi, il 1986, l’amministrazione di allora riuscì a ottenere un finanziamento e consolidò tutta l’area che era molto instabile e aveva compromesso sia delle abitazioni private che un mercato coperto mai aperto proprio perché pieno di crepe. 

Approfittando di questo finanziamento si costruì anche la piazza che comunque ha avuto diversi cambiamenti nel corso degli anni. Negli anni Novanta, si decise per lo sgombero dell’unico immobile rimasto e si realizzò un parcheggio e una strada di collegamento con la strada sottostante. Ma soprattutto, si realizzò una piazza più estesa con al centro una fontana zampillante. 

Da quel momento, la piazza di fronte al Bar è diventata per tutti a piazzetta, spazio di aggregazione, motore pulsante di eventi, serate e incontri durante tutto l’anno conflentese. 

Il Bar Centrale, invece, oggi di proprietà dei fratelli Marco e Cristian Villella, ha una storia un po’ più lunga.
Il fondatore di questo storico bar fu Remo Rubino, da tutti conosciuto come ‘Rinuccio’, persona amabile e sempre disponibile che creò uno spazio per le chiacchierate, gli incontri, le partite a carte e le serate che il Bar Centrale ospitava in quegli anni.
Era il 1937, quando Rinuccio, all’epoca quasi trentenne, decise di mettersi al servizio della comunità conflentese aprendo questa che sarebbe diventata una intramontabile realtà.
In poco tempo infatti sottrasse clienti all’altro bar storico, quello di Coltellaro. 

 

Rinuccio, più giovane e più attento ai tempi, seppe rinnovare e dare un’impronta moderna al suo locale e attirare lentamente anche i più giovani.
Come non ricordare infatti la prima macchina elettrica per il caffè espresso oppure, in piena estate, il primo banco frigo per bibite e gelati artigianali.
Chi voleva assaggiarli freschi, ai tempi, non aveva altra scelta che recarsi aru bar de Rinucciu e sedersi a un tavolino con lo sguardo rivolto alla Chiesetta della Querciuola.
Nel paese che allora contava oltre cinquemila abitanti, il bar diventò una vera e propria istituzione, un punto di riferimento. 

Se infatti il Bar Centrale era chiuso, tutto il paese si fermava, mentre bastava guardare le luci provenire dall’interno del bar per rimettere buonumore a tutti. Lì Rinuccio era sempre pronto ad ascoltarti e a strapparti un sorriso, anche grazie al primogenito Franco che, a partire dal 1949, faceva coppia fissa con lui dietro il bancone. Infinite poi erano le sfide a carte: tanti e agguerriti erano i giocatori che frequentavano ogni giorno il bar, pronti a strappare una vittoria di prestigio.
Tra questi si ricorda Vittorio Paola detto ‘u Commessu,  abile nel fare il celebre 48. Insieme a lui, Francesco Roberti, detto Cicciu e Curteddra, e Peronagi, il maestro Politano, il maestro Egidio per arrivare ai più recenti Ennio Butera e Francu e Michele.

Rinuccio e Franco gestirono il Bar Centrale sino al 1966, anno in cui lo stesso venne ceduto a Pasqualino Mastroianni. Da allora si sono avvicendate molte gestioni, ma il bar ha continuato a essere il punto di riferimento di sempre
Oggi, come abbiamo detto, Bar Centrale e “piazzetta” sono ormai un tutt’uno indissolubile, impossibile pensare al bar e non alla piazza o viceversa. Col tempo si è proceduto a nuovi ammodernamenti, sia del bar che della piazza, ma la magia è rimasta la stessa e quando il bar è chiuso tutto il paese sembra risentirne.

Il luogo ha conservato il fascino di un tempo, continuando a rimanere il luogo di ritrovo di tutti, come nei tempi passati, quando per rimanere connessi bisognava per forza incontrarsi per strada.