Il portone del Parroco!. Ma d’altra parte un salotto di quel tipo meritava una piazza, e così in mancanza di una vera qualcuno se l’è inventata.
E quello spazio angusto, che era venuto fuori dal piccolo incrocio, lo abbiamo utilizzato come piazza, anche a costo di stringerci a mucchio in alcune occasioni come i comizi, che stranamente con tanti posti migliori, si tenevano proprio là.
Poi, fortunatamente, qualcuno ha pensato bene che era arrivato il momento di costruirne una vera, là vicino, e ci ha regalato Piazza Pontano. Dicevamo del portone del parroco, luogo di ritrovo e di osservazione: ti fermavi un poco e l’intero paese ti sfilava davanti. D’altra parte non potevi passare senza fermarti, era una sosta obbligata, come ad una barriera doganale, un tributo da pagare per il tuo essere del paese: più eri del paese e più tempo avevi speso al portone.
‘U purtune d’u paracu!
Da adolescenti tutti a stringerci a strinci vutte per entrarci tutti assieme, fino a quando non si superava il limite degli schiamazzi e vi poneva fine, silenzioso ed improvviso, dal finestrino sovrastante il getto d’acqua della za monaca.
Il limite non era dato saperlo, dipendeva dall’ora e dalla pazienza della za monaca, dall’intensità degli scossoni inflitti al portone.
Portone! Quante storie hanno ascoltato i tuoi gradini; quante pene d’amore riversate nell’orecchio confidente dell’amico; quante angosce trasferite all’altro che ti si avvicinava sempre più man mano che il racconto si faceva più struggente.
Quante storie hai ricevuto senza mai tradirle, quanti ricordi incorniciati dall’arco del tuo portale ci siamo portati dietro nel viaggio della nostra vita sotto i cieli più lontani: quante volte ti abbiamo evocato nella domanda di rito rivolta al compaesano incontrato per caso in giro per il mondo: e cchi se dice a ru purtune d’u paracu?.
Di Franco Stranges