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A Conflenti agli inizi del Novecento i mezzi di trasporto erano quasi inesistenti. C’erano  persone che utilizzavano i muli, le giumente, gli asini, ma si trattava certamente di pochi privilegiati; la maggior parte della gente era obbligata a spostarsi a piedi. Si andava lontano o vicino, di notte o di giorno, senza lamentarsi e si camminava per ore. Moltissime donne, a quell’epoca, non portavano scarpe e il cammino, per loro, era naturalmente più faticoso. Quasi tutti i terreni coltivati: orti, castagneti, vigne, frutteti, erano fuori dal  paese e i proprietari vi si recavano più volte al giorno. La legna, le donne andavano a cercarla nei terreni del demanio al Reventino. Almeno due – tre ore di cammino.  Alcuni scolari, in campagna, per raggiungere la scuola dovevano camminare per chilometri. Quando c’era un funerale, gli abitanti delle contrade dovevano sobbarcarsi un viaggio estenuante per accompagnare il morto sino al cimitero di Conflenti. Lo facevano con qualsiasi tempo (se c’era neve trasportavano la bara facendola scivolare su una specie di slitta rudimentale).  E dovevano affrontare lo stesso percorso quando si svolgeva un matrimonio, quando c’era da sbrigare una pratica in municipio, quando occorreva andare dal medic0

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Grispeddrare, cestai, barilai partivano all’alba e facevano un lungo tragitto per andare a vendere i loro prodotti nei paesi vicini: Martirano, San Mango, Motta Santa Lucia, Nicastro. Qualche volta si spingevano sino a Cosenza e Catanzaro. C’erano studenti che quotidianamente andavano e rientravano da Nicastro, passando per Acquavona e scendendo o salendo per Rametta.  Un percorso che richiedeva tre o quattro ore di cammino sia all’andata che al ritorno. Lo stesso facevano i proprietari di negozi andavano a rifornirsi della merce da vendere a Nicastro.
Generalmente questi viaggi si facevano in compagnia e la fatica si sentiva meno. Si conoscevano le scorciatoie e si guadagnava sul tempo di percorrenza.  Però c’era anche chi s’avventurava da solo per lunghi viaggi.
Uno di questi era Luciano Villella.
Di professione faceva il calzolaio ma era abile in moltissimi altri lavori. Era anche un ottimo innestatore e veniva chiamato spesso per prestare la propria opera nei paesi del circondario. Quando doveva recarsi a Cosenza, invece di percorrere i sentieri che attraverso la valle del Savuto, da Motta Santa Lucia e Scigliano, portavano alla città e che abitualmente facevano i nostri compaesani,  preferiva  l’itinerario che partiva da Decollatura e seguire, sino a destinazione, la via ferrata.

Un percorso più lungo e più pericoloso. Bisognava attraversare molte gallerie e c’era la possibilità che il treno arrivasse all’improvviso.  Per Luciano il viaggio era ancora più rischioso perché era sordomuto. Egli però aveva trovato la soluzione che probabilmente gli salvò più volte la vita, facendolo arrivare sempre incolume a destinazione. Portava con sé un bastone che ogni tanto faceva strisciare sui binari e che gli permetteva di percepire l’approssimarsi del treno. Quando ciò succedeva, si fermava e dopo il passaggio della locomotiva, riprendeva il suo viaggio. Concluso il suo lavoro a Cosenza ritornava a Conflenti ripercorrendo la stessa via che aveva fatto all’andata. Naturalmente sempre in compagnia del suo bastone. 

 

Di  A. Coltellaro

L’uso di tessere col telaio a mano, a Conflenti Soprano, si perde nella memoria del tempo.
Al telaio si tessevano le lenzuola, le coperte, le tovaglie, che dovevano costituire il corredo delle ragazze in vista del matrimonio.
I tessuti di ginestra, lino, seta, cotone erano belli e resistenti e spesso i capi più ricchi di ricami, disegni fantasiosi e frange si tramandavano di madre in figlia.
Il telaio che si usava a Conflenti era costruito in legno di castagno: era una struttura a forma cubica fornita di sedile per la tessitrice, di un insieme di pedali (pidacchia), della cassitta dei pettini, del lizzu (elemento fatto di fili sottili di acciaio con un occhiello al centro attraverso il quale passano i fili dell’ordito tesi tra i due liccioli). Con u Uzzu si intreccia il filo per costituire la trama.
La tessitrice azionando pidacchia e cassitta faceva viaggiare con le mani la “navetta”, in cui era depositato il filo che durante il percorso si intrecciava con la trama. In questo modo nasceva il tessuto, che, a seconda del filo adoperato e del tipo di lavorazione dava vita al prodotto finale.
Oggi esiste ancora qualche vecchio telaio ma nessuno lo utilizza più, eppure questa tradizione ha rappresentato per lungo tempo una fonte importante di reddito per tantissime famiglie.

A essa era ovviamente collegata la gelsi bachicoltura e anche la produzione di lino e la raccolta di ginestra.  

U siricu

Per un tempo lunghissimo questa pratica è stata molto fiorente nel nostro paese.
Molte donne si occupavano con pazienza di allevare il baco da seta nutrendolo con le foglie del gelso, albero che cresceva in tutte le nostre campagne e di cui si utilizzavano le foglie (u pampinu) e le more (amure janche e russe) dolci e gustose.
I fornitori di semi, negli ultimi anni, erano Micu Baccari e Pasquale Marasco. Gli allevatori ne acquistavano n’unza o nu jiritale.
Ai primi di aprile arrivavano le sementi che insieme ai gelsi venivano “benedetti” durante la settimana Santa o il 25 aprile durante la processione di San Marco.
Per una decina di giorni, circa, i semini venivano custoditi in una pezzuola di lana riposta nel seno delle donne di giorno, mentre la sera si deponeva l’involucro accanto al focolare.
Quando iniziavano a schiudersi venivano sistemati in una scatola di cartone: si coprivano con una carta bucherellata in modo che attraverso i buchini le piccole larve salivano sulla parte superiore (i semi non vitali restavano sotto) ove trovavano le foglioline tenere di gelso e cominciavano ad alimentarsi.
Man mano che le larve crescevano si ingrandiva il contenitore – cannizzi o tafareddre – e aumentava la quantità di foglie di gelso (u pampinu) tritate.

Si procedeva così fino a quando le larve, nutrendosi e crescendo, raggiungevano una certa autonomia.
Quando le larve cominciavano a emettere una secrezione (futura seta) si mettevano nei nachi e cunocchie, ossia scupuli de ilica.  I bachi vi si arrampicavano ed emettendo la seta si costituivano il bozzolo cucuddru. A questo punto si scucuddrava ossia si tiravano i bozzoli dalla cunocchia e si lasciavano riposare perché il filo di seta ha bisogno di solidificare.
I bozzoli in genere venivano venduti ai tramezzieri, ma alcune donne particolarmente abili estraevano la seta dai cucuddri con mezzi rudimentali.  Si mettevano i cucuddri in una caldaia di rame piena di acqua, e con una scupetta si raccoglievano i fili di seta e si avvolgevano nel nimulu.
Se qualche baco diventava crisalide, bucava il bozzolo e quindi si otteneva una seta di seconda scelta, che veniva usata dalle tessitrici per tessere panname misto, insieme al lino e alla ginestra.

U linu e ra jinostra

Oltre alla seta le nostre tessitrici utilizzavano anche il lino e la ginestra nei telai paesani.
Il lino era coltivato, mentre la ginestra si raccoglieva nelle nostre campagne dove cresce spontanea e in abbondanza.
Il lino si seminava in terreni abbastanza freschi; raggiungeva più o meno l’altezza del grano e si mieteva quando la pianta produceva il caratteristico fiore azzurrognolo, anche se alcune piante venivano lasciate maturare per produrre i semi che poi servivano per le produzioni dell’anno successivo.
Gli steli falciati si legavano in gregne e si lasciavano essiccare al sole; quindi si portavano alla macerazione. Le gregne legate nei sacchi si portavano al fiume, si immergevano nell’acqua corrente, si bloccavano con grosse pietre e venivano lasciate in ammollo per una ventina di giorni affinché la fibra legnosa si sfilacciasse e si prestasse alla lavorazione.
Tolte dall’acqua le gregne macerate si battevano con un mattarello di legno , infine si manganavano (col manganaru) per liberare a furia di colpi il filo buono della fibra legnosa.
La stuppa che si produceva ovviamente non era pura, considerati i mezzi rudimentali, ma si avviava lo stesso alla filatura a cui si procedeva con fusu e cunocchia.

Quindi coi telai a mano il lino si trasformava in tessuto.
Per quanto riguarda la ginestra, la raccolta avveniva a giugno, quindi si legava in mazzetti e si portava in riva al fiume dove si accendeva un fuoco all’aperto e si immergevano gli steli in una caldaia piena di acqua bollente.
I fasci di ginestra si lasciavano poi macerare sotto l’acqua corrente e quando erano inteneriti si cospargevano di sabbia e si strofinavano su uno stricaturu.
A furia di strofinare si sfilacciavano le fibre e si riducevano in filo rudimentale che poi veniva raccolto nel nimulo e tessuto per fare strofinacci da cucina (grosse) e fadali.
Passate al bucato diverse volte, le grosse diventavano più morbide e allo stesso tempo resistenti e durature.
Ogni sposa ne portava al corredo quattro o sei, e ancora oggi in fondo a qualche vecchia cascia si può ancora trovare na grossareddra de jinostra.

 

                                   Di Giuliana Carnovale.

A seguito dell’enorme successo ottenuto dagli artigiani conflentesi alla Mostra Internazionale dell’artigianato artistico di Firenze del 1973, con il conseguimento della medaglia d’oro e della quasi concomitante nuova istituzione della Regione, si aprì un importante spiraglio di luce per gli artigiani casalini.
Infatti, alla tipica produzione di manufatti in legno dei nostri artigiani, anche in considerazione delle enormi richieste che arrivavano dai mercati nazionali ed esteri, si era interessato l’Assessorato all’Industria, Commercio e Artigianato.

Addirittura era stato predisposto un piano di intervento regionale per l’artigianato del legno conflentese, ed era stato incaricato un esperto del settore venuto dalle Marche per determinare le innovazioni tecnologiche e le attrezzature necessarie per l’ammodernamento del processo produttivo e quindi per l’incremento della produttività, vero tallone d’Achille del comparto.
Il piano era quasi giunto alla fase operativa, erano persino stati individuati i fondi nel cap. 3809 del Bilancio Regionale, ma tutto misteriosamente si bloccò.
Solo dieci anni dopo e per la prima volta nella storia del nostro piccolo comune, grazie alla tenacia e all’impegno dell’allora Sindaco Vittorio Paola, l’artigianato tipico conflentese divenne centrale e strategico nelle scelte politiche.
Fu finalmente ideata e attuata una strategia complessiva di rilancio di un comparto che tanto aveva significato per molte famiglie conflentesi, che partì con la costituzione di una cooperativa di cestai, guidata dai mastri cestai ancora in attività e fu avviato un corso di apprendistato per giovani da avviare a questa professione.
Il progetto doveva poi concludersi-completarsi con la costruzione di un Centro artigianale e museale da dare in gestione agli artigiani, con annessi laboratori e sala mostra.
Sembrava un sogno irrealizzabile, eppure inaspettatamente la perseveranza del Sindaco venne premiata e il centro artigianale si realizzò.
Per una volta la politica, seppure in ritardo, forse, aveva fatto il suo lavoro.
Purtroppo, se dieci anni prima, essa non aveva supportato adeguatamente gli artigiani e per questo l’opportunità era svanita, questa volta furono i giovani conflentesi a non credere convintamente in sé stessi e a questa possibilità.

La cooperativa per un breve periodo avviò la produzione, principalmente di cestini, ma poi per una serie di vicissitudini legata soprattutto alla mancanza di risorse da investire nell’acquisto di attrezzature, chiuse.
Unico aspetto positivo, che qualcuno imparò il mestiere e il mestiere in qualche modo si è mantenuto.
Oggi il Centro Artigianale, in parte utilizzato da altre attività artigianali, sovrasta dall’alto il piccolo e caratteristico borgo di Conflenti Superiore, testimone e guardiano di un sogno irrealizzato.

Sino agli anni sessanta a Conflenti non c’era un campo sportivo, anche perché in un paese come il nostro, pieno di dirupi, costruirlo non era facile e se si voleva giocare bisognava inventarselo. 

Sino a quando di automobili ne circolavano poche (cinque o sei fino alla fine degli anni cinquanta) si giocava sulla strada principale o vicino al cimitero: campi lunghissimi e strettissimi. Con frequenti interruzioni per invasioni di campo di cani, maiali e galline; animali all’epoca numerosi e sempre in libera uscita. 

Poi quando la circolazione aumentò (si fa per dire) e diventò impossibile giocare ci si spostò in collina a Salicara; per arrivarci ci voleva quasi mezzora (a piedi naturalmente); un buon esercizio di preriscaldamento! 

Si giocava su uno spiazzo, scoperto non so da chi, in mezzo ad un fitto castagneto dove talora c’era da dribblare anche qualche tronco d’albero.

All’epoca c’erano anche alcuni seminaristi e giocavano rigorosamente in abito talare.

Quando la palla finiva fuori, bisognava cercarla tra le felci, interrompendo il gioco. Anche il ritorno avveniva pedibus calcantibus

Negli ultimi anni riuscimmo ad eliminare queste faticose trasferte e giocammo in uno spiazzo di Conflenti Superiore spianato per costruirvi delle case popolari. Fortunatamente per noi, sfortunatamente per chi doveva andare ad abitarci, le case non furono mai costruite e godemmo di quel terreno per un po’ d’anni.  

Per una di quelle incomprensibili storie che spesso succedono al Sud, nella documentazione del Genio Civile di Catanzaro le case risultavano già costruite ed abitate ed un giorno si presentarono due ingegneri per il collaudo dei lavori. Pare avessero anche i nomi degli inquilini.

Lo spiazzo non era grande, ma per noi era come uno stadio, finalmente le porte con pali e traverse, giocavamo rigorosamente undici contro undici partite interminabili in cui il pallone o una gamba lo prendevi sempre. 

Verso la metà degli anni ottanta, quando poi in verità di bambini che giocavano iniziavano e essercene pochi e comunque a Conflenti finalmente era stato costruito un campo vero, di quello spiazzo si decise di farne una piazza vera e ne venne fuori una piazza accogliente che si decise giustamente di dedicare ai nostri emigrati.

Ci viene spontaneamente da chiederci cosa ne sarebbe stato di Conflenti Soprani se le case popolari fossero state costruite veramente là…

                      

             Di Antonio Coltellaro.

Un commiato da medaglia d’oro degno per una tradizione secolare

Il 1973 è stato l’anno in cui gli artigiani conflentesi hanno avuto l’occasione storica di far conoscere i loro manufatti al mondo e cambiare il proprio destino. Infatti, alla 37esima Mostra Internazionale dell’Artigianato Artistico che si tenne a Firenze, ottennero la Medaglia d’Oro.

La notizia fu accolta con molta soddisfazione, più che a Conflenti – dove passò quasi in sordina – negli ambienti interessati ai manufatti realizzati dai nostri artigiani. Scrivono, in un bellissimo articolo a doppia firma sul Giornale di Calabria, Vincenzo Villella ed Emilio Mastroianni il 24 Giugno 1974:
“Ceste, sporte, panieri, barili, lavorati con la semplice arte di sempre, costituiscono i prodotti singolari di un artigianato tipico a carattere familiare che continua ad essere un fenomeno culturale, l’espressione ancora autentica di una civiltà ancestrale socialmente isolata che, fin dal suo formarsi, ha sempre adeguato il proprio vivere al ciclo perenne della natura.

A Conflenti Superiore, una borgata incassata in una boscosa e suggestiva vallata ai piedi del monte Reventino, in un’atmosfera primordiale di silenzio quasi religioso, lavorano come al di fuori del tempo i pochi artigiani sopravvissuti ad una gloriosa tradizione che risale all’epoca dei primi insediamenti della zona. Lavorano come allora negli angusti bassi a piano terreno delle loro case in pietra, ripetendo i gesti quasi rituali della creazione. L’accetta, la piallina e robusti e massicci coltelli sono i soli ancora rustici arnesi di un’arte ignorata dalla meccanizzazione e dalla produzione industriale.

Ogni cesta o barile o paniere sono vere e proprie creazioni individuali, esclusive ed originali perché sono frutto del lavoro delle mani di un solo artigiano dalla pianta alla vendita del prodotto. L’artigiano infatti si deve dapprima procurare il legname nei boschi di Conflenti e dei paesi limitrofi, una volta scelta la pianta deve ridurla in tronchi, spaccarli in “quartieri” e quest’ultimi, a loro volta, ridotti col coltello e la piallina in sottilissime stelle, ossia vere e proprie cinghie di legno sottilissime e resistenti. Queste stelle poi vengono intrecciate e cucite con sottilissimi fili e infrascate, ricavati con incredibile pazienza e perizia dalla sfaldatura a mano di pedaline di castagno ancora verdi. Gli artigiani producono lavorando ininterrottamente tutto il giorno poche ceste, oggi come tre quattrocento anni fa”.

Ma da dove nasce questa incredibile arte e perché? Anzitutto, c’è da considerare il fattore territoriale-geografico: l’isolazionismo, la lontananza dai grandi centri e la precarietà delle vie di comunicazione hanno per forza di cose fatto proliferare l’artigianato per l’utilizzo delle risorse naturali del luogo e la realizzazione di quei manufatti che poi venivano importati. Poi c’è un elemento altrettanto incisivo: sul territorio vi era una forte richiesta per lo più dovuta alla produzione di vino, nella quale Conflenti eccelleva, e i manufatti servivano sia per la raccolta che per conservazione.
A questa richiesta, per forza di cose, si doveva rispondere e ciò portò, appunto, all’espansione dell’artigianato locale e al raggiungimento dei suoi picchi.
A onor del vero bisogna chiarire che questa difficoltà nelle comunicazioni non impedì comunque agli artigiani conflentesi di commercializzare la loro produzione, unica e poco imitata, in tutto il comprensorio.

Pur essendo un paese chiuso tra i monti, un tempo mal collegato con i grandi centri a causa di vie di comunicazione disagiate e precarie, pur essendo i suoi abitanti in prevalenza contadini e artigiani, Conflenti ha sempre dato prova di apprezzare la cultura, favorendone la diffusione anche a costo di grandi sacrifici.
Anche se, si sa che, in passato, nel Meridione l’andazzo dei tempi in fatto di istruzione era quello che era: essa rimaneva prerogativa di pochi perché la prepotente nobiltà locale preferiva tenere le masse popolari nell’ignoranza.

La scuola era solo un privilegio di pochi e sottratta alla possibilità dei più, l’istruzione veniva impartita solo ai figli maschi delle famiglie più ricche.
I ragazzi delle famiglie umili invece venivano come mandati come discipuli alle botteghe degli artigiani, dove mastri e summastri impartivano il senso della disciplina e trasmettevano il loro sapere, oppure come garzuni o guardiani di pecore dai contadini più ricchi.
Discipuli e garzuni erano i nostri avi-ragazzini, così imparavano la vita, spesso coltivando il sogno di emigrare nel nuovo mondo.
L’Italia post unitaria cominciò a dare importanza all’istruzione e obbligò i comuni a organizzare le scuole, ma i risultati non furono incoraggianti, anche perché i poveri contadini non potevano permettersi di mandare i figli a scuola sottraendo braccia al lavoro dei campi.

All’inizio del Novecento i maestri a Conflenti erano Emanuele Caruso ed Eugenio Paola per le classi maschili e la maestra Pasqualina con una classe femminile, in verità poco frequentata. Le classi erano numerose, anche di 80 alunni, e le scuole erano disseminate per il paese, in case private nei diversi rioni, aru chianiattu o vasciu. Col passare del tempo le cose migliorarono e dopo la nuova costituzione repubblicana del 1948 la scuola divenne anche a Conflenti effettivamente obbligatoria.

La scuola a Conflenti nel secondo dopoguerra.

Bisogna dire che, comunque, Conflenti era uno dei pochi paesi del circondario ad avere fin dal 1930 il privilegio di un asilo infantile, che era stato istituito presso i locali del Santuario in seguito ad un lascito di un benefattore Raffaelino Maio e gestito dalle suore del Cottolengo, appena arrivate dalla casa madre di Torino.

Di scuole elementari vi erano cinque classi a Conflenti Sottani e cinque al Casale e rimasero sparse per il paese fino alla costruzione del nuovo edificio nei primi anni ‘70.
Nelle campagne invece vi erano le pluriclassi.
All’inizio non esisteva la scuola media, al tempo non obbligatoria e per accedervi bisognava sostenere degli esami a Nicastro.

Solo alla fine degli anni ‘50, fu richiesta e istituita la scuola di avviamento professionale di tipo industriale e la stessa il 31 dicembre 1962 divenne Scuola Media Unificata Obbligatoria. La scuola media era unica e fino alla fine degli anni ‘70 era a Conflenti Soprani nella casa di Domenico Paola di fianco alla chiesa della Madonna di Loreto, solo un p0′ di tempo dopo fu spostata anch’essa nel nuovo edificio.
Da allora tutti i ragazzini conflentesi hanno frequentato la scuola dell’obbligo fino al 14° anno, per come prescrive ora la legge.

A pensarci oggi, ai tempi di Internet, sembra strano, ma una volta a Conflenti operavano agenti di importanti agenzie di navigazione.
Delle vere e proprie agenzie di viaggio, con uffici bene attrezzati, che si occupavano di tutto quello che era necessario per emigrare: dai biglietti, alla documentazione necessaria, alla prenotazione della indispensabile visita medica e persino del viaggio per arrivare ai porti d’imbarco.
I primi flussi migratori dalla provincia di Catanzaro documentati nei registri dell’Archivio di Stato risalgono al 1875. Quasi tutti con destinazione esclusiva Brasile e Argentina, mentre poi a partire dal 1890 si iniziano ad avere notizie di conflentesi sbarcati ad Ellis Island negli USA.
Da una relazione del Delegato Regio del 1882 si evince che già in quegli anni da Conflenti fossero emigrate più di cinquecento persone.
L’emigrazione continuò senza interruzione fino alla prima guerra mondiale portando oltre oceano tanta gente. Con la guerra e le successive leggi fasciste l’emorragia si bloccò, per poi riprendere in maniera massiccia dopo la seconda guerra mondiale con l’aggiunta di altre destinazioni come Canada, Australia e paesi del Nord Europa.
Un vero e proprio esodo che portò allo spopolamento del paese. Nei primi tempi l’ingresso in questi paesi era abbastanza facile tant’è vero che alcuni emigranti andavano e venivano frequentemente; poi, particolarmente per gli Stati Uniti, si posero molte restrizioni e le difficoltà ad ottenere il visto d’entrata aumentarono notevolmente.
Gli emigranti, quasi tutti poveri e analfabeti, all’inizio, partivano per questi viaggi un po’ alla ventura, fidandosi delle promesse ricevute e facendosi aiutare da amici e conoscenti. Non sapevano dove andavano e cosa avrebbero trovato.
E spesso venivano truffati. Sia in patria che all’estero. Se riuscivano a partire, il loro viaggio era fatto in condizioni disumane, nella promiscuità più completa spesso nella stiva delle navi.
Dopo la seconda guerra mondiale i viaggi furono meglio organizzati e, per aiutare i partenti, a Conflenti operavano quattro agenti marittimi che s’incaricavano di sbrigare tutta la documentazione necessaria per ottenere i visti d’ingresso nei paesi di destinazione. Essi erano: Nicola Coltellaro per la Flotta Lauro; Pasqualino Mastroianni per l’Italia, Giovanni Villella per il Lloyd Triestino e Nicolino Folino, u Purzianu, per i Fratelli Cosulich.

Oltre a sbrigare tutti i documenti, essi si prestavano ad accompagnare i partenti con i loro familiari alle visite mediche che venivano effettuate nei consolati di Messina, Roma e Napoli. Queste visite, molto minuziose, erano obbligatorie per tutti i familiari, anche per quelli che sarebbero rimasti in Italia.
Esse rappresentavano uno scoglio difficile da superare e alcune volte impedivano a tutti i membri della famiglia di partire insieme. Alla fine della visita veniva consegnato un libretto sanitario debitamente firmato.
Tra gli agenti marittimi quello che svolgeva a pieno ritmo e a tempo pieno questo lavoro era Giuanni ‘e Giuliu (Giovanni Villella), che ha aiutato ad emigrare moltissime famiglie conflentesi per l’Australia, soprattutto della zona Annetta- Serra d’Acino- Lisca- Passo Ceraso.
La sua attività proseguì sino a metà degli anni Sessanta, calando progressivamente, in parallelo con la diminuzione delle partenze.
Sino a qualche anno fa, sulla facciata della sua casa campeggiava l’insegna del “Lloyd Triestino” (attuale Italia Marittima).
Giovanni, nato e vissuto a Conflenti Superiore, è stato anche un personaggio molto attivo e influente nella vita politica conflentese. Segretario del partito durante il periodo fascista, è stato in seguito segretario della Democrazia Cristiana. Da buon conflentese era anche produttore di un ottimo vino.

La tradizione dei dolci tipici aru casale si perde nel tempo ed è sicuramente legata ad un’altra produzione tipica di Conflenti: quella del miele. 

Nel nostro paese nei tempi passati l’apicoltura era una pratica molto diffusa e miele e cera erano prodotti che toccavano l’eccellenza e impiegavano numerosi addetti, il miele in particolare trovava un suo sbocco naturale nella produzione di cose duci e cannarutie.

Le donne di Conflenti Soprani, dove tradizionalmente si concentrava quasi tutta la produzione, erano autentiche maestre, da centinaia di anni le casaline avevano affinato un mestiere che ad un certo punto con le mastazzola era diventato una autentica arte.

Cannarutie e cose duci venivano prodotte in grande quantità, sia per Conflenti che per gli altri paesi, dove erano apprezzatissime.

Feste religiose ma anche matrimoni e altre ricorrenze liete, erano occasione in cui questi dolci non potevano mancare, addirittura in occasioni di zitaggi e altri eventi importanti si ricorreva all’aiuto di abili mastre dolciarie, che preparavano nei laboratori e anche in loco, antesignane del moderno catering, mastazzola, buccunotti, suspiri, turdiddri, panette, cuddruriaddri, grispeddre e cuzzupe

Ancora oggi, molti conflentesi, ricordano alcune di queste maestre inimitabili: Licrizia Paola, Ida Raso e Maria ‘e Ddelia.

Oggi l’ultima casalina attiva, erede di queste indimenticate maestre, è Lina.

Lina ha setacciato per anni i mercati paesani coi suoi prodotti, conquistando un pò tutti ovunque.  E se le grispelle erano il prodotto più venduto, sono le mastazzola il suo marchio di fabbrica, il prodotto in cui l’arte sembra baciare il gusto.

Lina ancora oggi delizia i nipoti della sua bravura e dopo aver preparato l’impasto, con l’ausilio di un semplice taglierino e la sua grande manualità, continua a creare dal nulla in un silenzio quasi liturgico autentiche le sue opere d’arte: pesci, chicchi d’uva, cavallucci, fiori e tanto altro. 

 

Sono talmente belle che si fa quasi un torto a mangiarle, se non fosse che il sapore è altrettanto squisito. L’occhio ha avuto la sua parte ma passa splendidamente il testimone al gusto.

Per fortuna questa arte a differenza di altre che arrivavano dal passato non si è persa e a Conflenti ci sono ancora splendide testimonianze di questo antico mestiere, tramandando questa magnificenza che non è finita nel dimenticatoio.

 

                                    Di Giovanni Putaro

Costruzioni medievali, botteghe artigianali, fermenti di attività casalinghe e agricole e usanze popolari, fino a non molto tempo fa, conferivano vivacità e colore all’antico rione d’a Madonna’ u Ritu, particolarmente caro a me perché vi sono nata e vi ho vissuto fino all’adolescenza.
Purtroppo le insidie della vita moderna e il progettare nuove forme di costruzione senza tenere conto di quelle preesistenti, hanno in parte deturpato quella bellezza che al rione conferiva un aspetto tutto particolare, che evocava tempi antichi.

Eppure se volgo lo sguardo, rivedo tutto com’era e rivedo pure i miei vicini di casa, ognuno legato a una mania, a una attività, ad una posa particolare.
E allora ecco la chiesa col suo magnifico portale scolpito in pietra, opera di maestri scalpellini del Seicento; la monumentale scalinata i cui gradoni a semicerchio offrivano possibilità di chiacchierate ai nostri nonni; il lastricato di pietre; gli usci di legno affacciati sulle vineddre adiacenti; i balconi traboccanti di graste fiorite; le botteghe, i  negozi ricolmi di merce. U cavune…a china.

Ed ecco là, Miliuzza esperta nell’arte serica, davanti ad un’enorme quadara dove ha immerso i bozzoli e con uno scupulo di erica raccoglie i fili lucidi e continui di seta componendoli a matassa, col marito u mutu che aiuta e approva compiaciuto per la spertianza della moglie.  Ddon Micu e ddon Cicciu sempre seri e ligi al loro dovere di funzionari dell’ufficio postale che vanno avanti e indietro con carte e plichi oggetti per loro sacri e inviolabili. Ddon Nicola Fualinu sempre scontroso e borbottone per il chiasso dei nostri giochi e per un colpo sbagliato di ziparu che va dritto a infastidirlo. Mamma e zia Giorgetta che dal balcone chiacchierando vegliano su di noi e papà u miadicu Paula che fa suonare a tutto volume il suo grammofono (una rarità per quei tempi).
Piatru Rasu, coi suoi discorsi farciti di intercalari…insomma, accussì, ha capitu, oggi e domani….Giuseppe e Jennaru che ripara le scarpe e si compiace di sentenziare per proverbi! Rosa e donna Maria che all’imbrunire iniziano a chiamare le galline ….curi curi curi, e le galline che per quanto poco cervello possano avere, capiscono al volo e accorrono.

Vittoriuzzu, sempre originale per il senso spiccato dell’umorismo con cui affronta le più svariate pretese degli esigenti compratori e formidabile le trasforma in barzelletta.
Vittò, damme cinquanta lire de baccalà….e cchi te puazzu dare ccu cinquanta lire, na cuda!  Francischina de Scialampu che dal balcone chiama le nipotine e Niculina a mparinata che siacuta i bambini che vogliono raccattare il loro pallone.
E rivedo pure il ragazzo che jetta u bannu annunciando a voce alta che dduve Palinu si vendono ficazzane e cirase.
Ai fatti narrati è impresso il timbro della nostalgia, dell’emozione, nel rievocare un’epoca che non esiste più.

A ra Madonna’ u Ritu si sapeva tutto di tutti. A ruga era una grande famiglia, non c’erano segreti. Non mancavano naturalmente battibecchi, invidie, gelosie, ipocrisie, ma nel complesso si era sempre tutti uniti e pronti ad andare incontro con slancio sincero alle necessità di chi aveva bisogno. C’era la riconoscenza, la collaborazione, era sconosciuta la fredda indifferenza propria del mondo di oggi.
A ra Madonna ‘u Ritu si viveva la vita coi suoi risvolti, lieti o tristi, ma si viveva una vita a dimensione d’uomo, con calore umano, senza freddezza.

 

 

Qua ancora non sono arrivate le auto, qua ancora è tutto come centinaia di anni fa. Si nota qualche balcone rinnovato, qualche casa rifatta: ma nel complesso arcere, scale esterne, finestrine, purtelluzzi, catuaji, case attaccate l’un l’altra si tengono per mano come per raccontare ai disincantati visitatori di oggi la storia lenta del passato!
E in mezzo la fontanella antica, dove come un tempo le donne si affacciano a chiaccherare e dove l’eco del mondo in movimento e di corsa vi giunge come da luoghi remoti!
Anche i rumori e le voci che si odono sono ovattati, quasi fuori dalla realtà.

Tutte le strade portano aru chianiattu

Intorno alla piazzuola altri rioni medievali, tutti bellissimi ma le cui vineddre confluiscono tutte aru chianiattu.
Fucili, con Via Venticinquemila dal prezzo che fu pagata, i Maruatti, Trazzinu con la sua fontanella le cui acque scaturiscono dalle viscere del centro storico.
Se ti aggiri tra queste vineddre paesaggisticamente e nelle tradizioni rimaste legati al passato, provi emozioni forti, perché puoi trovare balconi ancora fioriti che ti sorridono, incontri gente affaccendata che si aggira con andare sommesso tra i vicoli di pietra e il silenzio ancestrale è rotto solo da voci umane e versi di animali.

 Un posto fuori dal tempo

U Chianiattu è un posto fuori dal tempo, che continua a mantenere intatto il suo antico splendore.
Un tempo cuore pulsante di Conflenti Soprani, con laboratori di cestai, botteghe e cantine sempre aperte, era il punto di incontro di tutti i casalini.
Data la sua meravigliosa configurazione, funge a volte da cinema all’aperto, ora come tanti anni fa, il luogo è adoperato per proiettare film sotto le stelle durante le calde serate estive.
Tutt’oggi è il set prediletto di eventi, feste e sagre che mirano a recuperare le tradizioni, perché è un posto incantato, ancorato al passato, in cui il tempo sembra essersi cristallizzato.
Entrare aru chianiattu è come arrivare in un’altra epoca.