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La grande tragedia bellica avvolge e unisce per una volta, per la prima volta, i villaggi del Sud al resto d’Italia.
Quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, i giovani calabresi arrivano al fronte più numerosi che da altre regioni. Partono per le trincee i contadini, i braccianti, gli artigiani, i disoccupati calabresi. Nessuno al Sud sfugge alla guerra.
La Calabria dà una risposta massiccia alla chiamata alle armi e ci saranno brigate composte per lo più da calabresi, la Brescia, la Ferrara, la Jonio, la Cosenza. O la Catanzaro, quella dei “morti con la terra in bocca” sempre in prima linea.
Questi giovani, prima della chiamata alle armi, non erano mai usciti dai loro paesi, non sapevano deve andavano né per cosa combattevano, vittime di un destino più grande di loro e di una Patria che si era ricordata di loro solo nella guerra.

Il fante Eugenio Giudice

In divisa, partito da Conflenti, c’è anche il soldato Eugenio Giudice, di 33 anni, al limite d’età per l’esercito, sposato con Rosaria. Eugenio sta per diventare papà quando gli arriva l’ordine di arruolarsi, nel marzo del 1915. Prima di allora ha conosciuto soltanto il suo paese o le frazioni vicine, quelle che si possono raggiungere a piedi. Per un primo periodo il soldato Eugenio farà una preparazione sommaria a pochi chilometri da Conflenti, a San Fili di Rogliano, poi aspetterà la vera e propria chiamata alle armi.

La partenza al fronte 

Quando è il momento, dovrà lasciare gli affetti e la piccola casa di una sola stanza per piano che sembra essere messa di traverso nel vicolo della sua “ruga”. Con un dolore pesante almeno quanto la sua rassegnazione, alimentata dall’ignoranza e dallo stupore per quanto sta accadendo in quei mesi di guerra. Lui, di origini umili, quasi analfabeta, non è in grado di capire cosa stia succedendo a oltre mille chilometri di distanza, lì al fronte. Conosce la fatica della sopravvivenza, con cui è diventato uomo e marito, ma non il terrore della morte che non lascia scorrere il tempo. Il suo avvicinamento ai campi di battaglia sarà lento e laborioso, durerà diversi giorni, Eugenio andrà e tornerà dal fronte.
Con la sua classe, quella del 1882, è nella milizia mobile, i congedati ancora in gamba, destinata dietro la prima linea. Per due volte farà ritorno a casa. Subito dopo l’addestramento, poi per alcuni mesi dopo la nascita del figlio. Una gioia breve, che acutizzerà il tormento nelle ore più buie dei campi di battaglia. Dal novembre 1915 al nord e non rivedrà più la sua Rosaria, a cui dà rispettosamente del voi, il suo piccolo Antonio, i suoi cari e il suo paese. Il 19 maggio 1916 rimane vittima della Strafexpedition, la grande offensiva lanciata dall’esercito austro-ungarico, quattro giorni prima, il 15 maggio, lungo le valli di imbocco al Veneto.

La corrispondenza con la sua amata Rosaria

La corrispondenza di questi 14 mesi tra gli sposi segue il ritmo degli eventi. Il fante Eugenio usa toni pacati, durante l’addestramento o nei mesi di Catanzaro, malinconici nei periodi di riposo, angosciati nei momenti al fronte, a volte infuriati, ma sempre sorretti dalla speranza che la Madonna a cui non manca mai di rivolgere una preghiera, possa comunque proteggerlo. Eugenio scrive le sue quasi quotidiane cartoline postali alla sposa Rosaria in una lingua che non è il dialetto, e che quindi non esprime a pieno i sentimenti, e non è l’italiano che conosce appena. La carta, la penna e l’inchiostro filtrano i suoi pensieri come dei setacci sempre più fini. Di scritto resta soltanto un accenno di quanto vorrebbe dire, e di quanto non sa e in parte non può dire.

“Oggi in punto forse dobbiamo partire e non sappiamo dove ci tocca andare mentre non ce lo dicono mai”, scrive il 18 aprile 1916. Ma non appena alza gli occhi, quella immensa ruota di cui lui è minuscolo ingranaggio si mostra amara e indecifrabile: Ci tocca andare a Modena poi più avanti. Non c’è chi fare niente perché anche i zoppi devono partire. Pure vi dico che hanno chiamato altre due classi di terza bontà”, scrive da Catanzaro il 30 ottobre 1915 e poi pochi giorni dopo, giunto a Padova rincara: “Siamo come le mosche il mese di agosto e per ogni ora giungono treni pieni di soldati”. A maggio tornerà al fronte.

Per l’ultima volta.  “Andiamo adesso nell’accampamento dove dicono che siamo in terza linea e il posto che noi andiamo si chiama Marga Zolle che è una montagna troppo alta e pure dicono che non è tanto cattivo solo che ci sta la neve”. Siamo giunti alle montagne dello Trentino – annota l’11 maggio –  ci sta buona aria fresca e pure la neve, però ancora non si sa cosa dobbiamo fare. Vuol dire che io però quel giorno vi scrivo sarvo che…. Salvo che, appunto, sia il destino a scrivere per lui l’ultima lettera.

Liberamente tratto dal libro “Vite rubate” di Eugenio Giudice e Vittoria Butera

Le suore del Cottolengo sono presenti a Conflenti da quasi un secolo, da quando, a seguito di un lascito della famiglia Maio, vennero chiamate nella nostra comunità per occuparsi del Santuario e istituire l’asilo per i bambini.
Da allora, la Casa delle suore ha costituito un riferimento educativo fondamentale, il lievito di azioni pedagogiche essenziali alla crescita umana, sociale e religiosa.
Hanno visto nascite e morti, hanno assistito a battesimi e lutti, hanno condiviso gioie e dolori di tutti e, nel periodo bellico e nel dopoguerra, hanno contribuito in modo determinante al miglioramento delle condizioni socio culturali dei conflentesi.
Se, da un canto, Conflenti ha inglobato nel proprio tessuto le Suore come sue figlie naturali, dall’altro le stesse vi si sono innestate amorevolmente da “sorelle”.

Quotidianamente, alla preghiera hanno alternato la laboriosità, secondo la tipica tradizione monastica: un tempo per pregare, uno per dialogare, uno per cooperare.
Le suore, pur tra continui avvicendamenti, hanno sempre garantito con pazienza, umiltà e tanto amore la cura del Santuario, contribuito alla crescita umana delle ragazze che si sono avvicendate nella loro scuola di ricamo, a quella dei bambini che hanno frequentato l’asilo ma allo stesso tempo hanno fatto sentire forte, seppur in maniera discreta, la loro presenza all’interno della comunità. Grazie a essa, noi conflentesi ci siamo sempre sentiti, fra tutti i paesi del circondario, dei privilegiati.

L’asilo delle monache del Cottolengo fu istituito con l’arrivo delle suore, direttamente dalla casa madre di Torino, negli anni ‘30.
Il nostro comune fu il primo ad averne uno nel circondario e le nostre madri le prime ad usufruire di un servizio simile, con un posto sicuro dove lasciare i figli, con la tranquillità di potersi dedicare senza preoccupazioni al loro lavoro.
L’asilo delle monache radunava tutti i bambini di Conflenti, che intorno agli anni ‘50 contava quasi 5.000 abitanti, e dunque straripava di bambini, oltre 50 per classe. Tante generazioni ricordano con nostalgia quei tre anni di asilo, il riposino pomeridiano sulle brandine, il gioco dell’oca sul terrazzo, la segatura di Mastru Cicciu o Mastru Lorenzu e Mastru Ernestu sparsa nel corridoio per asciugare l’acqua nei giorni di pioggia. E anche, perché no, le sculacciate quando i bambini facevano i birbanti.

Il laboratorio di ricamo 

Fino agli anni ‘60 erano poche le ragazze che continuavano gli studi dopo le elementari. I genitori ritenevano le città piene di tentazioni, quindi le tenevano in paese sotto stretta sorveglianza.

Naturalmente, considerati gli impegni lavorativi, non potevano essere sempre presenti e allora le mandavano dalle suore, dove imparavano l’arte del ricamo e le regole del vivere civile.
Vi si andava quasi tutto l’anno, dalle nove del mattino fino alle quattro e mezza di pomeriggio, con un intervallo dalle dodici alle due per poter rientrare a casa e mangiare. Si pagava per poter frequentare, dapprima trecento poi cinquecento e infine mille lire. Una suora si dedicava completamente alle ragazze.
O
ltre al ricamo, che permetteva loro di preparare il corredo per sposarsi, si leggevano libri religiosi e si partecipava alle prove per i cori delle messe domenicali.
Inoltre, ci si divertiva tanto organizzando delle gite nei dintorni e qualche volta persino più lontano.

Le giovani più brave e particolarmente dotate per questo tipo di lavoro, una volta realizzato ciascuna il proprio corredo, lavoravano per terzi, su ordinazione. Le richieste erano numerose e per lungo tempo questa attività che, dopo il laboratorio si continuava a casa, ha rappresentato una buona fonte di reddito.

 

La festa solenne della Madonna della Quercia è fissata all’ultima domenica di agosto.
È’ la festa simbolo del paese, la ricorrenza di cui ogni conflentese non può fare a meno, che sia credente o meno.

La festa è preceduta dalla celebrazione della novena e da un mese di preparativi, con alcuni eventi come la fiaccolata e l’incoronazione particolarmente sentiti e partecipati. La sera della vigilia, è tradizionale in chiesa la santa veglia, con la partecipazione di paesani e forestieri che per voto fanno a nuttata.
Un tempo il venerdì era usanza fare a jurnata fermandosi in chiesa a cantare da mattina a sera.
La giornata più importante è ovviamente la domenica: si celebrano in continuazione funzioni liturgiche a cui prendono parte migliaia di pellegrini. Alle 10,30 c’è la Messa solenne officiata dal vescovo nel corso della quale il Sindaco offre il cero votivo alla Madonna; quasi un ringraziamento in forma ufficiale da parte del Capo del paese per la particolare protezione che la Vergine garantisce al popolo conflentese.
Alle 17 ha inizio la processione solenne a cui partecipano il clero, le autorità civili e militari e una enorme folla. L’imponente processione si snoda per le vie del paese e la devozione della gente a volta sconfina nel fanatismo, ma resta pur sempre espressione sincera di un sentimento genuino.

Terminata la processione la statua rientra in chiesa e la festa religiosa si conclude tra la commozione generale mentre continua all’esterno quella civile.
Momento particolarmente toccante è quello della ricollocazione della statua nella nicchia dell’altare maggiore il lunedì successivo. Il Santuario si riempie di nuovo e tutti cercano di sfiorare la statua- si fa – quasi fatica a staccarne lo sguardo. Quando i volontari prendono il bambinello, lo affidano alle suore e si sostituisce la corona, l’emozione travolge tutti, finisce la festa, finisce l’anno dei conflentesi.

Non tutti sanno che negli anni immediatamente successivi alla costruzione del tempio, e precisamente per 25 anni, la festa si celebrò il 25 giugno. In seguito si stabilì che il dì festivo e solenne dedicato alla Vergine fosse spostato all’ultima domenica di agosto, perché in giugno la gente era occupata nelle campagne con la raccolta delle messi e non riusciva a partecipare alle funzioni religiose. Dal 1607 i festeggiamenti si tengono l’ultima domenica di agosto
Nei secoli passati poi la processione si svolgeva con solenne fiaccolata nel cuore della notte, fin quando per motivi di ordine pubblico, Ferdinando IV Re delle Due Sicilie, proibì la manifestazione notturna.
L’origine della fiera è anch’essa molto antica, a sottolineare l’importanza che man mano aveva acquistato la festa della Madonna della Quercia di Visora. Nell’anno 1695, il re Carlo II stabilì che intorno al Santuario, si poteva posizionare un mercato per un periodo di tre giorni subito dopo estesi ad altri sei da Carlo III.

Nacque così la Fiera di Visora, che aveva una importanza enorme e veniva ufficialmente aperta dall’agente baronale al suono dei tamburi.
Partecipare alla Fiera era un privilegio di cui non tutti godevano. Quelli della Fiera erano non solo giorni in cui si compravano e vendevano prodotti, ma erano anche un momento particolare nel quale si davano appuntamenti per i pagamenti dei fitti tra i locatari e i proprietari dei terreni e si pagavano i censi che scadevano.
La festa della Madonna non si festeggia solo a Conflenti ma in molte parti del mondo. Le comunità di conflentesi sparse per il mondo, che hanno radici ben salde nel paese natio, per mantenere vivo questo legame hanno riproposto la festa in onore della nostra Madonna nelle loro nuove città.

E così, a Buenos Aires in Argentina, Sidney e Melbourne in Australia, Toronto in Canada ma anche a Borgo Ticino in nord Italia, in contemporanea con la nostra festa, si vivono le stesse emozioni che viviamo noi in paese.
In questo giorno, tutti i conflentesi del mondo, seppur molto lontani gli uni dagli altri, si sentono parte di una unica grande comunità.
Uniti in un unico grande abbraccio, attraverso monti e oceani, tutti con gli occhi lucidi e con il cuore pieno della stessa identica commozione.

Per quarant’anni un raggio di sole ha illuminato questo paese, ha scaldato il cuore dei nostri bambini, ha frenato l’esuberanza dei nostri ragazzi: quella luce si fa volto, ha un nome..Sorangela.
Di origine pugliese, proveniente da Ostuni (Brindisi), suor Angela Monopoli, giungeva a Conflenti giovane, alla prima esperienza di apostolato come “maestra di asilo” dopo aver preso i voti.
Qui, all’ombra del Santuario della Madonna della Quercia di cui, con le consorelle del Cottolengo, era attenta custode, con pazienza e umiltà, col viso illuminato da un rassicurante sorriso, ha accolto, preso per mano, coccolato, sgridato, stretto al cuore, anno dopo anno tutti i bambini di Conflenti dai tre ai sei anni, per decenni!

Il magistero cristiano della gentile Sorangela non si limitava però solo alla cura dei bimbi che piangenti si distaccavano dalle mamme per temprarsi alle difficoltà del vivere nell’asilo del Santuario.
Lei era una guida spirituale e morale nelle successive fasi della crescita: da giovani si tornava a confidarsi da lei, da sposati ancora si faceva riferimento ai suoi saggi consigli per risolvere i problemi della vita di tutti i giorni.
Non aveva generato figli, ma era mamma di generazioni e generazioni! Suora piena di vitalità, gioiosa. Chi non ricorda gli spettacoli all’aperto che mobilitavano tutta la popolazione per la “festa della mamma”?

Dal palco allestito sul sagrato fanciulli, bambini, ragazzi si alternavano in spettacoli teatrali magistralmente preparati dalla brava suora, tenace instancabile regista delle spontanee esibizioni di piccoli attori, regalando ai genitori, amici, conoscenti un’ora di divertimento: si riportavano sulla scena momenti di vita, valori, costumi, usanze.Sorangela, la saggia, la mamma delle mamme per decenni e decenni è stata considerata una conflentese, forse i più giovani neanche sapevano che non era nata qui, che prima non c’era e nel 1951 era venuta da lontano! Sorangela era della comunità, persino aveva contaminato la sua originale inflessione col nostro dialetto.

Lei ha lasciato un’orma indelebile nel nostro paese, il suo passaggio ha segnato generazioni, il seme dei suoi insegnamenti ha messo radici nel cuore di figli e genitori per circa mezzo secolo. Col volto sereno e fare operoso la mite suor Angela ha segnato un’epoca.

Era qui tra noi negli anni duri e faticosi della ricostruzione, era qui quando i conflentesi emigravano in terre lontane, era sempre qui a registrare la vita dei compaesani e a piangere per le sventure, era sempre qui con noi nel bene e nel male, sempre conflentese, sempre con noi a sorridere e piangere. E ora che è volata in cielo, tra gli angeli come lei, ha desiderato che la sua salma restasse nel nostro cimitero, affetto tra i nostri affetti. A ricordo sempre presente della nostra unica, insostituibile sorella. Sorangela è di Conflenti, e resterà per sempre nel cuore dei conflentesi.

Giuliana Paola Carnovale

Il terremoto del 1905 aveva colpito gravemente Martirano producendo lutti e rovine, tanto che era stata annunciata una visita del Re sui luoghi del disastro.
Tutti i collegamenti per Martirano erano però interrotti, così, egli arrivò con un’autovettura fino a Conflenti, per poi proseguire da là verso i luoghi colpiti dal tragico evento.

A Santa Maria, in piazza vicino al Santuario, si radunò una folla di curiosi per vederlo col suo seguito. Il Re fece una piccola sosta e gli vennero offerti in dono molti prodotti locali, il monarca apprezzò in modo particolare il pane di farina di castagna che definì “pane dolce al sapore di miele”.
Intanto in fretta, era stata bonificata alla meno peggio la strada di collegamento da Scagliuni per consentire il passaggio verso Martirano.
Il proseguimento era possibile però solo a dorso di asino e per il Re erano stati impegnati una mula, una bella sella e Cicciu, il palafreniere. Tutto messo a disposizione da Don Rodolfo Isabella, notabile dell’epoca, che poi conservò per lungo tempo la sella.

Cicciu conduceva la cavalcatura per la cavezza e, consapevole dell’incarico ricevuto, stava accorto ad evitare all’angusto personaggio ogni difficoltà. Da un po’ di tempo però vedeva che questi, quando il sentiero diventava più ripido, allargava le gambe e spingeva coi piedi nelle staffe, come se cavalcasse un cavallo. Allora gli sovvenne che la mula era ombrosa e che se avesse avuto qualche scatto avrebbe disarcionato il trasportato con ogni intuibile conseguenza. Decise perciò di informarlo immediatamente: O Rre, strinci ‘e cosce c’a mula è vizzarra e te jetta (Re, stringi le gambe perché la mula è ombrosa e ti disarciona) e quello, sentendosi interpellato, senza capire il senso delle parole rispose: “Ma cosa dice brav’uomo, cosa dice?”.


Anche Cicciu non aveva capito che il Re non avesse capito. D’altra parte, come poteva pensare che il Re non avesse inteso quando lui era stato così chiaro? Allora lasciò correre per non importunare.
A breve, però, una certa tensione trasmessagli dalla cavezza lo portò a rinnovare l’invito: O Re, taiu dittu mu strinci e cosce ca a mula è vizzarra e te jetta.
L’interpellato ancora non volle capire e rispose col suo: ”Ma cosa dice brav’uomo, cosa dice mai?”, e continuò ad allargare le gambe e a spingere nelle staffe, al che spontaneo ed immediato il commento del premuroso palafreniere: Tu tinne futti? E futtatinne, ca si cadi ta squatri tu ‘a crozza (Tu te ne infischi? Ed infischiatene, tanto se cadi la testa te la rompi tu”).
E qui si chiuse il conversare tra il sovrano e suddito.

Di Francesco Stranges

Fino agli anni ‘80, nei giorni precedenti il 20 settembre, il sagrato del Santuario e spesso pure la chiesa, erano teatro del passaggio e della sosta di ogni sorta di animale diretto alla fiera di Decollatura.
Mucche, buoi, cavalli, muli, capre e asini, insieme ai loro padroni salivano da scagliuni, provenienti da Martirano e da tutto il comprensorio del Savuto. La salita era dura e la sosta, approfittando della fontana della piazza, quasi obbligatoria.
Ma, soprattutto nel passato, la sosta non si faceva solo per rifocillare gli animali.
Animati da un fervido sentimento religioso, i proprietari degli animali, li portavano in chiesa, ai piedi della statua della Madonna, per una santa benedizione fai da te.
Il grande sentimento che lega la gente del circondario alla nostra Madonna, sfociava anche in manifestazioni molto strane, quasi pagane, come questa, che avveniva nei giorni della fiera della cucuzza di Decollatura e, a dire il vero, anche in altre occasioni.


La benedizione avveniva con un rituale molto particolare: si realizzavano delle collane a cui venivano attaccati dei soldi che si mettevano al collo degli animali, che con questi doni entravano in chiesa.
Alla fine della benedizione, le offerte rimanevano alla Madonna e, con molta più fiducia, si continuava il cammino verso la meta.
Per i ragazzi, assidui frequentatori di quello che era il loro unico campo di gioco (il sagrato), questi giorni erano vissuti come un vero dramma.
Gli animali, durante la sosta, e approfittando della relativa tranquillità, defecavano e lasciavano tracce molto evidenti del loro passaggio.
E se la pioggia non arrivava a salvarli, i poveri ragazzi erano costretti ad arrangiarsi e a ripulire in tutta fretta il loro campo di gioco.
Purtroppo per loro, però, passavano pochi giorni e il problema si riproponeva in modo ancora più rilevante in quanto, in tanti, alla fiera andavano solo per comprare, e alla fine della stessa, ritornavano a casa coi nuovi acquisti per cui, inevitabilmente, toccava ripulire di nuovo.

Oggi, come un tempo, la messa di domenica mattina è un appuntamento da non perdere per credenti e non credenti. È un’occasione per ritrovarsi e raccontare gli avvenimenti della settimana e, spesso, la preghiera diventa un fatto puramente marginale.
Un tempo c’era un rituale ben preciso, studiato nei minimi dettagli.
I primi ad arrivare erano gli uomini anziani. Alle otto in punto erano quasi tutti sul sagrato. Si formavano piccoli gruppi rigorosamente divisi per differenze economiche e sociali. Tra loro non c’era quasi mai comunicazione. Nel rispetto delle regole della tradizione, le donne giungevano più tardi. Un ritardo voluto perché si aspettava che la platea fosse al gran completo. Sapevano di essere osservate e procedevano senza fretta, con movimenti lenti e ben studiati. Quel momento, tanto atteso da una settimana, era da consumare lentamente e tutto da sfruttare, soprattutto per chi era ancora da sposare. Da uno sguardo furtivo e ricambiato poteva venir fuori il grande amore e soprattutto un matrimonio.
Le messe erano due. La prima all’alba o quasi. La chiamavano letta e durava poco. Era la messa per chi aveva altre occupazioni durante la giornata o di chi aveva un solo vestito per tutte le stagioni.


La messa solenne, invece, cominciava alle dieci. Era la messa dei giovani e dei benestanti del paese. Era preannunciata da un lungo scampanio; era cantata e durava più di un’ora. Per uomini e donne era l’occasione buona per ammirare ed essere ammirati. Anche in chiesa c’era una tradizione da rispettare: si stava rigorosamente separati per età, sesso e condizione sociale. I signori avevano posti riservati. Le donne tutte sedute nelle prime file, gli uomini tutti indietro e in piedi. Le ultime file di banchi erano riservate agli uomini anziani.
Ogni contatto era da evitare, pertanto la comunione veniva data prima alle donne e poi agli uomini. La messa era in latino. Parlare e pregare era una cosa normale, ci si scambiava le ultime notizie. L’uscita dalla messa era una nuova occasione da sfruttare, l’ultima della settimana. Altri sguardi e sorrisi alla ricerca di conferme. Si rallentava il passo per allungare il tempo del ritorno mentre l’occhio vagava alla ricerca di uno sguardo o di una persona. Un ricordo da serbare fino alla domenica seguente.

di A. Coltellaro

Nessuno pensa che tra Conflenti e Diego Armando Maradona, il più forte calciatore di tutti i tempi, possa esserci un legame, eppure c’è, ed è molto forte.
Già intorno agli anni ’70, alcuni nostri compaesani emigrati in Argentina, che vivevano a Lanus e avevano avuto il privilegio di conoscere nel barrio poverissimo di villa Fiorito il fuoriclasse argentino fin da piccolo, tornati a Conflenti ne avevano raccontato le gesta quando ancora nessuno in Italia lo conosceva.
Addirittura, si racconta di tal R. Orlando, un giovane figlio di emigrati conflentesi che faceva parte delle famose “cebollitas”, la squadra giovanile in cui giocava Maradona che aveva incantato e fatto innamorare tutta Buenos Aires per le incredibili gesta di quei ragazzini invincibili.

Ma il legame non si ferma qui.

Casa Ferlaino, che ha dato i natali al famoso giudice Francesco Ferlaino, nostro illustre compaesano caduto sotto i colpi della mafia dopo aver condotto una grande battaglia contro di essa, è stata anche la casa di Modesto Ferlaino, fratello del giudice e papà di Corrado Ferlaino.
Si, proprio Corrado Ferlaino, il famoso presidente del Napoli, diventato popolarissimo nel mondo, per aver avuto il merito e la capacità di portare in Italia il fuoriclasse argentino, senza ombra di dubbio il calciatore più forte di tutti i tempi.
E in realtà, anche Corrado Ferlaino, fin da piccolo, è stato un assiduo frequentatore di quella casa e di Santa Maria dove, come tutti i bambini di questo rione, si divertiva a giocare a calcio sul sagrato del Santuario.
Da buon conflentese, poi, e fino a quando ha potuto, ha sempre visitato Conflenti e reso onore alla Madonna nei giorni della festa.
Addirittura, durante una delle sue ultime apparizioni a Conflenti, ha manifestato il suo supporto alla locale squadra di calcio divenendone presidente onorario.
Per questo motivo, ai tanti italiani che hanno avuto la fortuna di ammirare le incredibili gesta di Maradona, vogliamo ricordare – e lo rivendichiamo con orgoglio – che ciò è avvenuto per merito di un figlio di Conflenti.

Santa Maria col suo Santuario è il primo luogo che trovi arrivando a Conflenti.
Fin dai primi del Seicento, la fama della Madonna di Visora e la bellezza del suo Santuario erano noti in quasi tutta la Calabria.

Eppure, ancora fino all’immediato dopoguerra, se si esclude la cantina del vino di Peppe a Marca, a Santa Maria non c’erano attività commerciali. Solo nel periodo della fiera, il bar di Rinuccio approntava lì un suo punto vendita e qualche altro volenteroso “attrezzava” le ormai famose locande con lo spezzatino. A colmare questo vuoto ci pensò Ciccu e chiareddra che inaugurò il Bar Calabria (oggi Bar Visora) e soprattutto la famosa trattoria nella piazza antistante al bellissimo colonnato.

La trattoria divenne ben presto un punto di incontro e ristoro per tutta la comunità e fu dotata del primo televisore di Conflenti, anche se riuscire a entrare per guardare eventi importanti: partite, incontri di boxe o altro era un privilegio non concesso a tutti.

I banchetti della trattoria Calabria restano ancora oggi un piacevole ricordo di molti anziani che festeggiarono là il loro matrimonio o le feste più importanti.
Ma anche il Bar, ben presto, anche per la posizione strategica, visto che da Santa Maria partiva il postalino che rappresentava l’unico collegamento col mondo esterno, divenne un luogo molto frequentato.
Il resto lo fece la geniale intuizione dei suoi proprietari, che puntarono sul gelato come prodotto principale (per fortuna la tradizione continua anche ai giorni nostri). 

Oltre alla vendita al bar, direttamente dai famosi “pozzetti”, fu approntato un originale carretto, con un banco gelato, che girava per il paese a vendere degli squisiti gelati preparati col ghiaccio, accuratamente raccolto e conservato dai maestri nivari.

I nivari

Un tempo la neve cadeva abbondante sul nostro territorio; ne scendevano giù centimetri e centimetri, in particolare sul Reventino. Così, una famiglia del luogo riprese un’intuizione già diffusa in molte parti d’Italia facendone un’occasione di lavoro: conservare la neve per poi riutilizzarla nei mesi estivi. Un tempo non c’erano frigoriferi quindi bisognava trovare qualche soluzione per tenere al fresco cibo e bevande. Nacque in questo modo anche da noi questo mestiere diffuso in molti altri posti. Quando le precipitazioni nevose terminavano, i nivari (curiosamente il soprannome delle famiglie che ebbero questa idea è arrivato fino ai nostri giorni) salivano sul monte Reventino. Lì sceglievano un posto adeguato, poco esposto e scavavano una grande buca qualche metro sotto terra, quindi la riempivano con la neve opportunamente pressata per poi ricoprire tutto, spesso anche con paglia, che difendeva dai raggi solari. Venivano a crearsi, così, delle vere e proprie ghiacciaie o neviere. La neve conservata allo stato solido si trasformava pian piano in ghiaccio.

Con l’arrivo della bella stagione si risaliva la montagna, si riscopriva la fossa e si tirava fuori la neve ormai ghiacciata. Il ghiaccio veniva portato al paese in blocchi, utilizzando a volte sacchi di iuta. Il trasporto veniva commissionato a chiunque possedesse asini o muli.
Il ghiaccio in genere si adoperava per due scopi principali. Le famiglie, principalmente le nobili, lo acquistavano e lo conservavano in posti riparati e lo adoperavano per tenere al fresco le bibite e i cibi. Mentre i bar ne acquistavano grandi quantità, in particolare nel periodo della festa della Madonna, per vendere ai numerosi pellegrini delle bevande fresche e soprattutto per fare gustosissime granite. Si metteva il ghiaccio in un grande contenitore nel quale si versava succo di limone e zucchero. E poi si mescolava a lungo, fino a che la miscela non si ammorbidiva e diventava granita. Ottima, rinfrescante e genuina.

Il proverbio è una sentenza breve, incisiva, alcune volte rimata o espressa per metafora, che ha per lo più uno scopo morale e condensa un insegnamento tratto dall’esperienza.
Lo spirito che è presente dietro i proverbi conflentesi, e ovviamente anche calabresi, ne rispecchia l’indole che è quella di essere ironici e schietti senza essere offensivi.
I proverbi sono la sintesi della sapienza dei popoli, hanno sempre profonde radici popolari e offrono uno
spaccato della società e della cultura da cui provengono.
Più di ogni altra cosa ci permettono di far risorgere il mondo degli antichi e di scoprirne abitudini di vita, usi, costumi, idee, paure, ossessioni, odi e amori.
La loro funzione è stata fondamentale nella storia della nostra regione, perché, in un popolo poco acculturato, sostituendo i libri scritti, hanno tramandato, da una generazione all’altra, notizie e insegnamenti di gran valore sul nostro modo di vivere.
Vediamone alcuni che fanno direttamente riferimento alla cultura contadina e che quindi utilizzano metafore che rimandano al comportamento degli animali o alla natura. Da esse si evince il forte legame dell’uomo con la terra, l’ambiente naturale e gli animali, uniche risorse di quella società.

  • U cane muzica sempre aru sciancatu (Il cane morde sempre il pezzente- In ogni situazione ci rimette sempre il più debole
  • U ciucciu chi ‘un fa ra cuda ari tri anni,’un ra fa cchiù (L’asino che non fa la coda dopo tre anni, non la fa più).  Se non si riesce a fare qualcosa dopo un certo tempo, non si riesce più.
  • A gatta presciarola fa i gattariaddri cicati (La gatta che ha fretta fa i figli ciechi). Le cose fatte in fretta spesso non riescono bene.
  • Quannu a vurpe un junce all’uva, dice ca è amara (Quando la volpe non riesce a prendere l’uva dice che è amara). Quando qualcuno non riesce a fare qualcosa, trova sempre una giustificazione.
  • Chine piacura se fa, u lupu s’u mangia (Chi si fa pecora, il lupo lo mangia). Chi è mite e paziente subisce torti e soprusi.
  • Un futtuliare u cane ca dorme! (Non stuzzicare can che dorme).  Potrebbe morderti.
  • E cirase se coglianu viscannu! (Le ciliegie si raccolgono fischiando). Per non mangiarle.
  • L’aggiaddru intra a caggia, un canta ppe amuri, ma ppe raggia! (L’uccello in gabbia non canta per amore ma per rabbia). Non tutti quelli che cantano sono felici.
  • Quannu chiova, mpesate e va, ca quannu scampa te truavi ddra! (Quando piove preparati e vai, che quando smetterà ti troverai là). Anticipa gli eventi, avrai un vantaggio.
  • Megliu nu ciucciu vivu ca nu miadicu muartu (Meglio un asino vivo che un medico morto).  Meglio una cosa di poco valore ma utilizzabile, che una di valore ma inservibile.
  • Chine un tene puarcu e uartu, è muartu (Chi non ha maiale e orto è morto). Una volta terra da coltivare e carne da mangiare erano fondamentali, senza di essi si rischiava la fame.
  • Acqua passata un macina mulinu (L’acqua che è passata, non fa girare il mulino). Le occasioni bisogna coglierle al momento opportuno.
  • Quannu u gattu se lava o chiove o jazza (Se il gatto si lava, piove o nevica). È un segnale di cambiamenti atmosferici.
  • Chine va aru mulinu, se ‘mparina (Chi va al mulino, si riempie di farina). Le esperienze lasciano sempre traccia.
  • U lupu cangia ru pilu, ma no ru viziu (Il lupo può cambiare pelo ma non il vizio). Occhio a chi fa finta di cambiare!
  • Puru i pulici tenanu a tusse (Pure le pulci tossiscono). Anche gli individui più insignificanti devono dire la loro
  • A gaddrina fa ll’ova e aru gaddru le vruscia u culu (La gallina fa le uova e al gallo brucia il culo). Quando qualcuno si fa il bello del lavoro degli altri e si lamenta pure.
  • Quannu a gatta un c’è, i surici abbaddranu (Quando la gatta manca, i topi ballano).  Nell’assenza di qualcuno che controlla, gli altri ne approfittano per concedersi tutte le libertà.
  • Attacca u ciucciu dduve u patrune vo (Lega l’asino dove vuole il padrone).  Asseconda il tuo datore di lavoro, senza pensarci troppo, di sicuro non potrà farti problemi.
  • A d’abbivirare carduni se perda sulu tiampu (A innaffiare i cardi si perde tempo). Non perdere tempo a fare cose inutili.
  • A gaddrina ca camina se ricoglia ccu ra vozza chjna (La gallina che va in giro torna sempre col gozzo pieno). Chi si impegna, qualcosa conclude.
  • A gaddrina va spinnata dopu morta (La gallina va spennata dopo morta). Ogni cosa a suo tempo. Non contare su una eredità prima di averla.
  • A gatta d’a dispensa cussì cum’è, penza (La gatta della dispensa com’è, pensa). Si dice quando uno giudica gli altri dalle sue idee e dal suo comportamento.
  • A lavare a capu aru ciucciu se perda tiampu e sapune (Se si lava la testa all’asino, si perde tempo e sapone). È lavoro inutile, voler istruire la gente stupida.
  • A malaerva (o gramigna) un mora mai (L’erba cattiva non va mai via). La gente cattiva è come l’erba infestante, si trova sempre.
  • A nive ‘e marzu dura quantu a fimmina in palazzu (La neve di marzo dura quanto una donna (serva) in un palazzo). Dura poco.
  • A nive porta pane e l’acqua porta fame. (La neve porta pane e l’acqua porta fame). La neve è utile, l’acqua dannosa.
  • A petra ca ‘un fa lippu, u jume s’a ‘mpesa. (La pietra che non fa muschio il fiume la porta via). Se qualcuno non si adatta all’ambiente prima o poi va via.
  • Cane c’abbaia, un muzica. (Cane che abbaia non morde). Non temere chi minaccia sempre.
  • Chiddru ca ‘un vue, a l’uartu te nasce. (Nell’orto spunta ciò che non vuoi). Spesso accade ciò che non vorresti.
  • Chine simina spine, un po jire scauzu. (Chi semina spine non può andare scalzo). Chi fa del male deve stare attento alle conseguenze.
  • Cucinala cumu vue, ma sempre cucuzza è! (Cucinala come vuoi sempre zucca è!)  Ti puoi sforzare quanto vuoi ma se la materia prima è di scarsa qualità, anche il risultato non è buono.
  • Dare cumpiatti ari puarci è tiampu piarsu. (Dare confetti ai porci è tempo sprecato). Fare qualcosa per chi non apprezza è tempo perso.
  • Jennaru siccu, massaru riccu! (Gennaio secco, contadino ricco). Segno di buon raccolto.
  • L’acqua e giugnu, rovina u munnu! (L’acqua di giugno rovina il mondo). Segno di cattivo raccolto.
  • Si l’acqua fossa bona un (se pirdessa) jessa u jime appinninu. (Se l’acqua fosse preziosa non  scorrerebbe giù nei fiumi). In questo caso intesa come bevanda.
  • U lignu stuartu u fuacu l’addirizza. (Il legno storto lo raddrizza il fuoco). In certe situazioni solo i metodi forti possono ristabilire l’ordine.
  • A mala cumpagnia te porta a ra mala via. (La cattiva compagnia ti porta nella cattiva via).
  • L’uaminu gilusu, mora curnutu. (L’uomo geloso, muore cornuto).
  • Chine se marita è cuntiantu ppe nu juarnu, chine ammazza ru puarcu resta cuntiantu ppe tuttu l’annu. (Chi si sposa è contento per un giorno, chi uccide il maiale lo è per tutto l’anno. Si sottolinea l’utilità del maiale che sfama per un anno intero).
  • E dduve nescia s’asca, de ssa nuce masca! (Il ramo che viene fuori da un albero è come l’albero. I figli sono come i genitori).
  • Megliu nu surice mmianzu a dui gatti, ca nu malatu mmianzu a dui miadici. (Meglio un topo tra due gatti che un malato tra due medici).  Sfortunato il paziente sotto le cure di due medici.
  • Ogne savurreddra aza na turriceddra! (Ogni pietruzza serve per elevare una torre). I grandi obbiettivi si raggiungono con tanti piccoli sacrifici.

Questi proverbi, invece, fanno riferimento alla saggezza popolare di una società povera, con poche possibilità di migliorare la propria condizione e in cui le precarie condizioni di vita ponevano come problema principale quello della sussistenza. Per poter sopravvivere bisognava lavorare duramente, essere “svegli” (fino alla diffidenza) e sfruttare tutte le occasioni.

  • A pratica vincia ara grammatica. (La pratica vince la grammatica). L’esperienza conta più dello studio.
  • Chine bellu vo parire, gran dulure ha dde patire. (Chi bello vuole apparire gran dolore deve patire).  Senza soffrire non è possibile raggiungere grandi obbiettivi.
  • Chine de speranza campa, affrittu more. (Chi di speranza vive, disperato muore).
  • Chi tardu arriva malu alloggia. (Chi tardi arriva male alloggia). Bisogna essere solerti.
  • Mpara l’arte e mintala de parte. (Impara l’arte e mettila da parte). Saper fare qualcosa è sempre utile.
  • Chine tene arte, tene parte. (Chi ha arte, ha parte). Nella società conta chi ha un mestiere.
  • Guardate du riccu mpoveritu e du povaru arricchisciutu. (Guardati dal ricco impoverito e dal povero che si è arricchito). Fai attenzione a chi cambia condizione, non sa adattarsi alle nuove situazioni.
  • A tavola misa, chine un mangia, perda ra spisa. (Quando la tavola è imbandita, chi non mangia perde la spesa). Se sei invitato e non mangi, hai solo da perderci.
  • Paga caru, ca sta mparu. (Le cose che costano di più, hanno maggiore qualità).
  • L’abbuttu un crida aru dijunu. (Il sazio non crede a chi ha fame). Chi non vive una situazione non può comprenderla.
  • I guai da pignata i ssa a cucchjara ca rimina. (I guai della pignatta li sa solo il mestolo che ci gira). I problemi di una famiglia li sanno solo i suoi componenti.
  • Dduve c’è gustu un c’è perdenza. (Dove c’è gusto non c’è perdenza). Niente può ostacolarci quando facciamo qualcosa che ci piace
  • Fa bene e scordate fa male e pensace. (Fai bene e dimentica, fai male e pensaci). Far bene dovrebbe essere una cosa naturale, senza pensare ai vantaggi; mentre bisogna ricordarsi sempre del male che si è fatto.
  • U patreternu manna viscuatti a chine un tene dianti. (Il Padreterno manda biscotti a chi non ha denti). Spesso le opportunità capitano a chi non sa o non può sfruttarle.
  • A ra cacareddra un ce pò culu stringere. (Con la diarrea è inutile stringere il culo). Ci sono delle situazioni in cui devi, purtroppo, cedere.
  • Chine tene sordi fa sordi; chine tene piducchi fa piducchi. (Chi ha soldi fa soldi, chi ha pidocchi fa pidocchi). In una società chiusa, come quella contadina, non c’era possibilità di migliorare la propria condizione. Quindi il ricco rimaneva sempre ricco e viceversa il povero sempre povero.
  • Quannu u culu ventija, u miadicu passija. (Quando si scorreggia, il medico passeggia). Se si scorreggia vuol dire che si sta bene.
  • Cazzu ammanicatu un guarda parintatu. (Pene indurito non si preoccupa delle parentele). L’attrazione sessuale prevale sul buon senso.
  • Panza chjina canta, no cammisa janca. (Pancia piena canta, non camicia bianca). Ci sono delle priorità, prima mangiare e poi apparire belli.
  • Senza sordi un se cantanu misse. (Senza soldi non si cantano messe). Senza soldi non si fa nulla, neanche la messa ti cantano in chiesa.
  • Po’ cchiù nu pilu all’iartu ca nu sciartu  aru pinninu. (Tira di più un pelo in salita, che una fune in discesa). L’attrazione sessuale ha un potere smisurato.
  • Va ccu ri megliu e tie e facce a spisa. (Va con chi è meglio di te e fagli la spesa). Frequenta chi è migliore di te e, se puoi, impara da loro anche a costo di pagare per poterlo fare.
  • Chine pocu tena, caru u tena. (Chi ha poco, lo tiene caro, con cura).  
  • Aru paise di cicati beatu chine tena n’uacchiu. (Nel paese dei ciechi beato chi ha un occhio).  Uno che sa poco in mezzo agli ignoranti sembra un saputo. In ogni situazione sta meglio chi possiede di più.
  • Mazze e paneddre fanu e figlie belle, Paneddre senza mazze fanu e figlie pazze. (Botte e dolci fanno le figlie belle, dolci senza botte fanno le figlie pazze). Bisogna essere dolci e severi nell’educare i figli
  •  Ppe ra ciotia un ci nna’ medicina. (Per la stupidità non esiste medicina). Non c’è rimedio.
  • Chine è natu quatratu, un po’ morire tunnu. (Chi nasce quadrato non può morire tondo. Chi nasce in un modo non può morire in un altro). Il carattere resta sempre lo stesso.
  • Megliu suli ca male accumpagnati. (Meglio soli che male accompagnati).
  • Uacchiu ca ‘un vide, core ca ‘un dola. (Occhio che non vede, cuore che non duole). Se alcune cose non si sanno si evita di soffrire.
  • A ragiune è di fissi. (La ragione è dei fessi). Si dice quando s’insiste troppo per aver ragione, per partito preso; senza cercare di capire le motivazioni dell’altro.
  • A meglia società è dispara e inferiore a unu. (La migliore società è dispari e inferiore a uno). Il consiglio è non fare società.
  •  A fatiga se chiama fata e a mie me feta. (Il lavoro si chiama fata e a me puzza). Lo dice chi non ama il lavoro.
  • A lingua vatta sempre dduve u dente dola. (La lingua batte dove il dente duole). Il pensiero va sempre a ciò che ci fa soffrire o ci preoccupa.
  • A matinata fa ra bona jurnata. (La mattinata fa buona la giornata). Fare bene di mattina significa fare il più della giornata.
  • Ara squagliata da nive, se vidanu i strunzi. (Quando si scioglie la neve viene fuori la cacca degli animali). Alla fine i difetti vengono fuori.
  • A razza, tira capizza. (La buona razza porta sempre sulla buona strada).
  • A ru paise d’a cuccagna chine menu fatiga cchiu magna. (Nel paese dei balocchi chi meno lavora di più mangia). Se vuoi mangiare ti tocca lavorare. Frase ironica.
  • U suviarchiu rumpa ru cuvierchiu. (Il soverchio rompe il coperchio). Il troppo stroppia.
  • A scusa de pirita sunu e surache. (La scusa delle scorregge sono i fagioli). Per ogni cosa c’è una scusa.
  • A d’ura ca u miadicu studia, u malatu sinnè jutu. (Nel frattempo che il medico studia, il paziente muore). Se non si agisce in modo celere, i rimedi risultano inutili.
  • A furia de futtire se resta futtuti. (A furia di fregare si resta fregati).
  • All’arrizzicu sta ru guadagnu. (Per guadagnare, bisogna rischiare). Se non si rischia non si raggiungono gli obbiettivi.
  • Aru penninu, ogne santu aiuta! (In discesa, ogni santo aiuta). A fare le cose facili ti aiutano tutti
  • Ccu ra vucca case e palazzi, ccu  ri fatti. capu de cazzi! (A parole case e palazzi, coi fatti nulla). C’è chi promette mari e monti e poi non mantiene le parole.
  • Chine fatiga mangia, chine un fatiga, mangia, viva e dorma. (Chi lavora mangia, chi non lavora, mangia, beve e dorme). Il lavoro ti garantisce il cibo, la ricchezza, tutto.
  • Chine parra assai, caca viantu! (Chi parla tanta, defeca aria). Chi si vanta tanto, non combina nulla.
  • Chine te vo bene te fa chjangire, chine te vo male te fa ridire! (Chi ti vuole bene ti fa piangere, chi ti vuole male ti fa ridere). Chi ti vuole bene ti dice la verità, anche se scomoda e non ciò che ti fa piacere.
  • Chine tena a casa larga, raga spine. (Chi ha una casa grande, ha tante spine). Una casa grande comporta responsabilità e problemi.
  • Ad ogni casa c’è na cruce. (In ogni casa c’è una croce).  Non esiste casa senza problemi.
  • I panni luardi se lavanu ara casa. (I panni sporchi si lavano in famiglia).  Gli affari di casa si risolvono in famiglia e non si raccontano in giro.
  • A ra casa du latru, un s’arrubba. (In casa del ladro non si ruba). È difficile imbrogliare una persona più esperta di noi.
  • Chine vo fricare u vicinu, se curca priastu e se leva ru matinu. Chi vuole fregare il vicino deve coricarsi subito e svegliarsi presto. Deve trovare i momenti buoni.
  • Chine vo ncripare u nimicu u fa parrare e se sta citu! (Chi vuole innervosire il nemico lo fa parlare e sta zitto). Chi vuole innervosire il nemico non risponde alle provocazioni.
  • Chine campa de mmidia mora de raggia. (Chi vive invidiando, muore arrabbiato).
  • Chine ccu priscari se misca, ccu pulici se leva. (Chi a che fare con bambini si ritrova pieno di pulci). Chi pratica gente immatura prima o poi avrà problemi.
  • Cchine lassa ra via vecchia ppe ra nova, trivuli lassa e malanove trova. (Chi lascia la via vecchia per la nuova, trova sempre nuovi problemi).
  • Chine mangia sulu affucatu mora! (Chi mangia da solo, muore affogato). Gli ingordi rischiano di soffocare.
  • Chine sta ccu ru zuappu se mpara a zuappicare. (Chi va con lo zoppo impara a zoppicare).
  • Chine tena faccia, abbusca mugliere. (Chi ci mette la faccia, trova moglie). Senza provarci non si ottiene nulla.
  • Chi vo va, chine un vo manna. (Chi vuole va, chi non vuole manda). Se vuoi una cosa, falla personalmente.
  • Cchiù scuru da menzannotte un po vinire. (Più buio della mezzanotte non può fare).  A tutto c’è una fine.
  • Cose e notte, vrigogna e juarnu. (Cose di notte, vergogna di giorno).  Le cose fatte di notte, hanno sempre qualcosa di cui vergognarsi.
  • Ccu l’amicu u pattu, ccu ru parente u cuntrattu. (Con l’amico un patto, col parente il contratto). Fidati più di un amico che di un parente.
  • È megliu na vota arrussicare, ca ciantu ngialinire! (Meglio una volta arrossire che cento impallidire). Meglio reagire subito ad un torto, che covare nel cuore risentimento. Se hai fatto qualcosa di male, confessalo subito.
  • I cunti se fanu ara ricota da fera! (I conti si fanno quando si ritorna dalla fiera). Alla fine.
  • E jestigne coglianu e ru gabbu mmisca! (Le bestemmie colpiscono; la derisione si trasmette).
  • Si a mmidia fossa guaddrara, tutti l’avessanu. (Se l’invidia fosse ernia, tutti ne soffrirebbero).
  • A zirra d’a sira, stipala ara matina. (L’ira della sera conservala fino al mattino). Meglio non agire sotto l’effetto dell’ira.
  • Visita rara, tenela cara. (La visita rara tienila cara). Tieni in buon conto chi cerca di non importunare sempre.
  • U pocu vasta e l’assai suverchia. (Il poco basta, il troppo avanza). La moderazione nelle cose è importante.
  • U sule a chine vide, scarfa. (Il sole riscalda chi vede).  Se vuoi cogliere una opportunità devi essere al posto giusto, al momento giusto.
  • Pane e mantu un grava tantu! (Pane e mantello non pesano tanto). Quando viaggi porta con te da mangiare e indumenti; sono sempre utili.
  • Sa cchiù u pazzu a casa sua, ca u saviu a casa e l’atri! (Ognuno sa i problemi della propria casa).
  • Se dice ru piccatu e mai u peccature! (Si dice il peccato e non il peccatore). Racconta il fatto non chi lo ha commesso.
  • Senza u fissa, u furbu un campa! (Senza gli ingenui, i furbi non vanno avanti).  
  • Si un niasci viscannu, zu peppe te fa ru vagnu! (Se non segnali la tua presenza rischi di beccarti il piscio in testa). Era un consiglio quando ancora non c’erano i gabinetti in casa.
  • Dduve cce su i fatti, un servanu e parole. (Dove ci sono fatti non servono le parole).
  • Fa cumu t’è statu fattu ca u d’è peccatu! (Fai come ti è stato fatto ché non è peccato). Se ti comporti con gli altri come loro fanno con te, nessuno potrà dirti nulla.
  •  Male un fare, paura u d’avire! (Se non fai male non hai nulla da temere).
  • Matrimuni e viscuvati, du cialu su distinati! (Il destino decide matrimoni e vocazioni).
  • Megliu n’aiutu ca ciantu cunsigli. (Meglio un aiuto che cento consigli).
  • E finestre du paise tenanu tutte e ricchie tise. (Le finestre del paese hanno tutte le orecchie attente). In paese si sa tutto di tutti.
  • Fatte i fatti tui ca campi ciantu anni. (Chi si fa gli affari suoi vive cento anni=. Non si trova nei guai).
  • Gente e marina futte e camina. (Quando incontri gente di mare, utilizzale se vuoi, ma liberatene appena puoi.
  • I parianti su cumu e scarpe, cchiu su stritti e cchiù te fanu male. (I parenti sono come le scarpe, più sono stretti e più fanno male).  

Infine, da questi, traspare una società profondamente patriarcale e maschilista in cui la donna era poco considerata e aveva un ruolo subordinato e da comprimaria.

  • Aru lustru da lumera tutte e fimmine su de na manera. (Al buio tutte le donne sono uguali).
  • Fimmina ca rida è cumu gaddrina ca canta, un cce tinire spiranza! (Non avere fiducia in una gallina che canta e una donna che ride=.   
  • Fimmine e sumere (asine), dduve su, fanu fere. (Donne e asine fanno solo casino).
  • A chine puazzu a muglierma puazzu. (Per ogni incazzatura ci va di mezzo la moglie). Sono sempre i più deboli a fare le spese dei torti subiti da altri.
  • Amu fattu a matinata e ra figlia fimmina. (È arrivata l’alba e la figlia è femmina).  Abbiamo solo perso tempo perché la neonata è femmina.
  • Fimmina de gghiasa, diavula de casa. (Occhio alla donna bigotta, perché è santa in chiesa diavola fuori).
  • All’uaminu a scuppetta, ara fimmina a quazetta. (All’uomo lo schioppo, alla donna il calzino). A ognuno il proprio lavoro e alla donna quelli di casa.
  • Figlia fimmina e vutte de vinu, dacce caminu. (Figlia femmina e botte di vino prima puoi mandarle via, meglio è). Seppure asse portante della famiglia
  • A casa senza fimmina è cumu na scupa senza manicu. (Una casa senza donna e come una scopa senza manico). Inutilizzabile,
  • Na mamma mantena dece figli e dece figli un mantenanu na mamma! (Una mamma mantiene dieci figli, ma poi dieci figli non sono capaci di mantenere una madre).

 

         Con la preziosa collaborazione di A. Coltellaro